“… Finchè toccherò la creta modellerò …”
Conversazione con Nunzio Bibbò, realizzata da Luigi Martini
1993
Giungo nella casa-studio di Bibbò nel primo pomeriggio, stà modellando diverse crete, forse per una mostra da organizzare a Benevento. Per conversare interrompe il lavoro, so che gli dispiace ma non lo fa notare.
Ci prendiamo un caffè, parliamo un po’ di noi, come sempre; controllo se il registratore funziona e, senza preamboli, gli chiedo: quali sono state le tematiche che hanno caratterizato la prima fase della tua attività creativa, fra il finire degli anni sessanta e l’inzio del decennio successivo?
In quel periodo modellavo molti gruppi, li chiamavo “assemblee”, a volte li inserivo nel paesaggio.
A quel tempo realizzavo anche ritratti e figure singole, ma il coinvolgimento maggiore lo raggiungevo nella creazione di questi gruppi legati: le assemblee, la famiglia, la coppia …; forse risentivo di una sorta di isolamento, avvertivo il bisogno della comunità e della solidarietà così forte nelle mie terre d’origine.
Queste “Assemblee”, quindi, non intendevano parlare delle lotte e dei movimenti aggregativi cresciuti in Italia sul finire degli anni sessanta?
Certamente valori di comunità erano anche nei movimenti sociali di quegli anni, l’arte, però, che deve sapere cogliere e anche anticipare quello che matura nella società e nelle persone, non deve cercare di raccontarlo, farne cronaca pittorica o scultorea, semmai coglierne l’essenza.
Tu insegnavi a Benevento ma vivevi a Napoli, città nella quale hai trascorso il periodo della formazione. Il bisogno di autonomia e di conoscenza ti portarono a girare l’Italia e ad accentuare le tue condizioni di isolamento.
Nel 1972 andai a vivere a Milano: avevo ricevuto un incarico d’insegnamento all’Accademia di Brera, in quel periodo diretta da Purificato. Accetai il trasferimento perché Milano, assieme a Torino, era una delle poche città italiane che potessero offrire ad un artista possibilità di crescita. Vissi a Milano solo per un anno perché ebbi la sensazione di trovarmi in un ambiente freddo che non riuscii ad accettare; mi trasferii ancora e venni a Roma ad insegnare al Liceo Artistico. Trovai un ambiente artistico più coinvolgente. Ero venuto a Roma per ampliare le mie conoscenze, entrai in contatto con la generazione di artisti a me più vicina, ma le strade della ricerca ci condussero presto su terreni diversi. Di fatto ho continuato a lavorare in modo isolato e autonomo sul terreno della ricerca.
Perché questo isolamento artistico e personale?
In questi ultimi venti-trent’anni la ricerca nel campo della figurazione è stata sottovalutata: i critici e le Istituzioni hanno valorizzato, quasi esclusivamente, le cosiddette avanguardie. Gli stessi Maestri della figurazione si sono rinchiusi nei loro studi senza tentare di tenere aperto un confronto dialettico per favorire l’incontro fra diversi linguaggi e contrastare questa linea unidirezionale che le mode e le correnti di pensiero, di critici e direttori delle Istituzioni, imponevano alla cultura artistica pubblica.
Di fatto, gli artisti più giovani che hanno ritenuto di proseguire la loro ricerca con linguaggi neo-figurativi hanno lavorato e lavorano, ma isolati.
Quale contributo ha offerto l’ambiente e la città di Roma alla tua opera?
Le figure che comincio a modellare a Roma sono consumate e rendono bene la suggestione che i tronconi di statue esposte alle intemperie, con quella loro aria di decadenza, provocarono in me.
Queste figure consumate diventano centrali nella tua ricerca per molto tempo?
In qualche modo non le ho mai abbandonate, diventano linguaggio specifico della mia opera, un tratto che contribuisce, assieme ad altri, a rendere personale il mio lavoro. Trasporto nel mio lavoro come la sensazione di trovarmi di fronte allo scheletro residuo di una grande cultura. Si tratta di sensazioni istintive, che già nel descriverle mi sembra di ridurre e banalizzare.
D’altra parte mi ritengo uno scultore istintivo piuttosto che un artista di corrente o teso alla programmazione di una ricerca.
Nel corso degli anni successivi si vengono consolidando alcune tematiche che si riveleranno ricorrenti nel tuo lavoro: la ricerca sul mito, il paesaggio della memoria, gli amanti. Mi sembrano questi i tre grandi filoni tematici della tua opera che, prima della metà degli anni settanta, non erano emersi con chiarezza.
Ritengo che il fare scultura sia cercare di trasmettere le proprie sensazioni di vita quotidiana. Da sempre porto con me la presenza del mito e la perenne emozione che gli amanti personificano. Si tratta della mia vita, delle mie angosce, così come il desiderio di appartenere al gruppo e, quindi, alle “Assemblee”. Gli amanti, l’amore, lo spiazzamento, la perdita degli amori, la riconquista di nuovi amori portano alla creazione di quelle forme.
Cosa trovi di contemporaneo in quelle figure di amanti, che tuttora scolpisci, così plastiche, ma fortemente incise?
L’amore è così fondamentale e capace di incidere nella vita di ognuno di noi che, finchè toccherò la creta, modellerò una coppia. Ogni nuova coppia che modelletò sarà diversa sul piano della forma, la vita arricchisce e la forma ne trae le conseguenze, diventa più macchinosa, segnata, forse più efficace.
Il mito. Nella tua scultura è, secondo me, il tentativo di trasmettere la sensazione di una presenza indefinita, di figura incombente, quasi si divinità.
Penso che ci sia un legame fra queste tue sensazioni e il mio pensiero. Per me è, comunque, una sorta di fuga, di nostalgia e di ritrovamento di una presenza imperitura. C’è il bisogno di evocare i fatti culturali grandiosi, le grandi religiosità che l’arte testimonia, un modo essenziale di interpretare la vita dell’antichità che mi affascina.
Pensare al mito, agli archetipi, è un visionare per la storia che mi è necessario, è una esigenza che mi propone la vita attuale, capace di svuotare, di privarci di qualunque fede (non obbligatoriamente religiosa). Se ci soffermiamo a pensare vedi che non c’è più contemplazione, non si fa poesia, non c’è raccoglimento, neanche il silenzio per dipingere un quadro. Non c’è più il tempo, la voglia, le condizioni per visitare un amico.
Io ripenso al passato perché è il presente, con questi suoi limiti esistenziali, che mi interessa e preoccupa.
Quali sono state le riflessioni che ti portarono alla realizzazione della scultura di paesaggio?
Ci arrivai senza accorgermene, quando successe per la prima volta provai la sensazione di avere prodotto un’opera molto personale, di avere raggiunto un risultato che rafforzava la mia autonomia espressiva. In qualche modo, il paesaggio segna un momento di sintesi della mia ricerca. Il lavorare la pietra di nenfro ha favorito questo approdo. È una pietra etrusca che si trova nelle campagne di Tarquinia, è pietra mitica che gli etruschi usavano per le strutture tombali, ci facevano anche le architetture. È una pietra tenerissima, si lavora facilmente, poi, all’aria aperta, diventa durissima. A me piace, perché, per colore e matericità, si avvicina a questi miei paesaggi mitologici. La pietra, in effetti, è la materia base per realizzare vera scultura.
Mi parli della creta e della terracotta?
La creta è il materiale più importante del mio lavoro, sono uno scultore di modellazione, tocco e modello l’argilla dai primi anni della mia infanzia.
L’argilla è materiale di passaggio per la tua scultura?
Per me è, quasi sempre, la materia definitiva delle mie sculture e, anche quando lavoro la pietra, tengo presente gli effetti che la modellazione dell’argilla consente.
Cerco di valorizzare al massimo la materia che uso, se ci fai caso, in alcune mie crete c’è grande attenzione a non fare notare il gesto della modellazione, del lavoro della mano; è il desiderio di esaltare la purezza della materia e la creta lo consente solo se entri in rapporto profondo con essa.
Quante crete hai usato?
Tantissime: quelle dei ceramisti di Tarquinia che ti offrono impasti capaci di creare ceramiche molto rosate, con venature marroni, che rimandano ai colori dei vasi etruschi; quelle umbre, diverse tra di loro, capaci, spesso, di portarti a ceramiche chiare, ecc.
Poche sono le tue sculture in legno, nessuna in ferro …
I materiali vengono scelti in base alla sensibilità e ai tempi di creazione che i singoli artisti hanno.
Io non uso il legno perché non mi permette di realizzare la scultura con l’immediatezza che consente la creta. I tempi lunghi di lavorazione mi tolgono la possibilità di passare, con immediatezza, dalla fase di ideazione a quella creativa. Se non riesco a realizzare l’opera attraverso questa fase rapida mi resta una sensazione di perdita di autenticità.
Il ferro non mi permette la manipolazione, la possibilità di creare quelle atmosfere che sono caratteristiche della mia scultura. Per me il ferro è un materiale fine a se stesso. Io sono legato alla mediterraneità, al mito del paesaggio, … il ferro non mi permette di trasferire queste sensazioni nella scultura.
La creta, con le proprietà che ha, il colore, i tagli, le superfici, non si può sostiture con alcuna altra materia.
Il bronzo, invece?
Il bronzo è un materiale che possiede storicità e, quindi, è legato alla mia scultura che aspira a forti riferimenti storici.
Se tu dovessi scegliere sulla base, solamente, di valutazioni artistiche, quale materia useresti?
La creta. Finirei l’opera in terracotta. Se avessi mezzi a disposizione, grandi forni, spazi per lavorarla, non avrei dubbi.
Qual è il limite del bronzo?
L’indispensabile fase di passaggio fra l’opera scolpita o modellata e quella che esce dalla fusione. Anche quando il lavoro intermedio e di fusione viene realizzato alla perfezione, la scultura perde in vivezza. Quando scolpisco la creta compio un gesto diretto, quasi spirituale, sul bronzo non posso agire direttamente.
La tua attività di scultore è accompagnata, da molto tempo, da quella di incisore. Come sei arrivato all’incisione?
Ho scoperto l’incisione a Roma, nel 1975-’76, frequentando una stamperia in via Germanico, di un artista libanese, Italo Mussa. Assieme a Mussa lavorava un uomo sensibilissimo all’arte incisoria, Michele Ciavarella. Ero molto interessato al segno così come l’incisione o l’acido lo trasformano e trasferiscono. Un interesse, quindi, legato alla teoria del segno e alla ricerca ad essa collegata, il bisogno di scoprire effetti chiaroscurali nuovi, con strumenti nuovi per il mio lavoro.
Hai lavorato anche lastre litografiche?
Pochissime, realizzo quasi solamente incisioni, perchè mi consentono di realizzare strutture luministiche che corrispondono meglio agli effetti della scultura, delle masse, dei vuoti e dei pieni.
La puntasecca è la tecnica attraverso la quale aggiungi forza e originalità alla tua opera d’arte?
Credo di riuscire, attraverso la puntasecca, a raggiungere il livello più alto della mia opera incisoria, mi consente di creare atmosfere e effetti chiaroscurali che sono parte essenziale della mia scultura.
Trovi difficoltà particolari nel lavoro di incisore?
La puntasecca mi consente di lavorare sulla lastra in modo scultoreo, come quando opero sulla pietra, in rapporto diretto con la superficie materica. L’acquaforte, invece, non consente l’incisione diretta, tutto è demandato all’acido, quindi i problemi che possono insorgere dipendono da questa sostanziale imponderabilità dell’azione incisoria.
Il colore e la pittura, invece, quando li hai scoperti?
Cominciai a lavorare con l’acquarello, la tempera e, poi, l’olio, verso la fine degli anni settanta, 1977-’78.
Dipingo all’interno dello studio, rielaboro gli schizzi fatti all’aria aperta, ci fantastico sopra. Come pittore devo essere considerato un autodidatta, almeno per quanto riguarda il rapporto con il colore.
Non usi l’acrilico?
No, l’acrilico mi offre colori che non sento, preferisco l’olio che trovo più sensuale e incisivo.
Perché hai sentito il bisogno di dipingere?
Faccio pittura perché queste forme colorate esprimono, in modo diretto, le varianti cromatiche della mia ricerca. I miei quadri possono essere considerati chiavi di lettura aggiuntive della mia scultura. Quando lavoro con il colore dipingo delle forme, non sono pittore di atmosfere ma di forme scultoree.
C’è stato un periodo nel quale, attraverso la pittura, realizzavi forme astratte, risale all’inizio degli anni ottanta.
È la pittura degli anni 1983-’85. In effetti tendevo ad annullare le forme conosciute per ricercare strutturazioni primordiali; giungo successivamente, e di nuovo, alla ricomposizione della forma, arricchita da questa fase di ricerca ed esperienza pittorica.
Anche i colori e i timbri cromatici che caratterizzano quella fase sono diversi da quelli attuali, sembrano tesi a produrre notturni; è possibile?
Il notturno, con le ombre, con i neri, in qualche modo porta alla dissolvenza della forma. In quel periodo meditavo sulla forma, avvertivo il bisogno di materializzare la mia ricerca in modo che le opere non marcassero derivazioni dirette dal lavoro di altri. Si tratta, pertanto, di una ricerca alla quale i notturni fornivano le condizioni della sua realizzazione.
Nella tua pittura più recente stendi il colore con pennellate che, ampie o fitte, restano nette nella superficie e per colori distinti.
Sono particolari di un linguaggio pittorico emerso spontaneamente nel lavoro. Questa moltitudine di pennellate da grande movimento alla mia pittura e alle forme che propone, come tracce di scalpello sulla pietra.
Per Nunzio è tempo di tornare a “toccare la creta”, quella materia che, come nessuna, sa raccontare la sua vita, le sue emozioni, i suoi desideri. Sospendiamo il nostro discorrere e, dopo avere gustato un altro caffè, lo lascio che modella una donna vestita di un tessuto d’argilla.