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Rassegna Testi Critici 3

RASSEGNA TESTI CRITICI

Nunzio Bibbò
Mario Rotili
1971

Artista spontaneo e vivo, ma nutrito dalle più vitali esperienze attraverso uno studio severo, Nunzio Bibbò, ricco com’è di una sorgiva vena plastica, giunge nelle sue sculture, caratterizzate da pungente espressività, a penetrare i più intimi valori umani. Sì che le sue figure di vecchi e di giovanette, di uomini provati dalla fatica e di donne rassegnate sono la materializzazione di immagini che affiorano alla mente dai ricordi della gente della sua terra, la riarsa e cruda terra dell’Alto Sannio, di una gente che, immutata, in silenzio, vive la propria vita di lavoro e di sacrificio. E se ad esse si affiancano figure diverse, quelle suggerite dall’ambiente cittadino che spingono lo scultore ad impianti arditi, ai quali però sempre si accompagna un’intensa caratterizzazione psicologica, è nelle immagini vigorose della sua terra natale, animate da una fiera grandezza, che Bibbò afferma la sua originalità. Lontano da facili suggestioni e schivo di un vacuo intellettualismo, egli ritrova nel mondo natìo i valori grandi ed eterni dello spirito. E questi valori rende con un linguaggio, che pur muovendo dalla tradizione, è quanto mai attuale, vivo ed agile, un linguaggio che conferisce saldezza disegnativa, nonostante la mobilità delle luci, agli stessi studi preparatori, a matita o a penna, e che giunge, nella materia plastica, mediante un modellato sfaldato e vibratile, ed un poderoso risalto.

Nunzio Bibbò
Elio Mercuri
1975

Ricordo una sua grande composizione scultorea, nella quale dispone come in un trionfo antico sul quale è passata l’ombra della morte i simboli della nostra alienazione, la macchina, un panno, le cose di tutti i giorni, una mela, così gessate, quasi divenute incorporee, in questa aria svuotata e di natura morta.
Dove di contro a questa febbre del sangue, a quest’impulso che apre in gesto che crea e dà forma alla materia, tutto ricade in questa possessiva ossessione, di un corpo che non è più carne; dove la carne si fa gesso, e si allontana, come su un palcoscenico di cartapesta dove la vita s’è spenta e persino lo spettacolo è finito.
Ma non tutto è qui, Bibbò avverte nella scultura una possibilità che non si rassegna a cedere, il potere di essere altro che questa impassibile testimonianza del vuoto e del silenzio che hanno occupato lo spazio della nostra esistenza, qualcosa che sia vita, in un suo estremo frammento, relitto, sembianza afferrata con patimento estremo, eppure a quel limite finale, tenuta come sospesa in una sua dimensione incorrotta. Non più nel tempo, ma dopo il tempo, la dove ogni immagine si ritrova nel suo archetipo, e per quanto dimessa, acquista una sua infinita e assoluta dignità. Ritrovamento di identità, come superamento delle barriere dell’illusione e dell’apparenza, della paura, di questa improvvisa sensazione di polvere che cade ad incarnare in immagine di morte le cose, calcolo di impossibile esistenza, come sudario su membra ormai scarnite e ridotte all’osso. Eppure Bibbò non si rassegna; se tutto ciò è parte della nostra realtà, sente nelle sue mani di scultore e nella sua immaginazione di mito, sotto la patina e la colata dei gessi, come l’effetto della lava, che ha reso eterno l’attimo, l’attimo prima, in una estrema aspirazione ad essere ancora vita.
Sotto il gesso o lungo le linee di un tronco di ulivo sente il palpito, la vibrazione, il flusso del sangue, e con mano sicura ricostruisce, l’immagine, questa presenza indistruttibile, scava seguendo le tracce invisibili, fino a ricomporre i tratti vivi di un volto e di un corpo; o lo spazio e gli oggetti della nostra quotidianità.
Non è, né pop art né arte povera, è scultura, cioè capacità di tradurre in sostanza e forma, ciò che è realta della nostra vita, in una operazione che non è falso estetismo o di pretestuoso cerebralismo, ma comunque e sempre, presenza, presenza dell’uomo e del suo voler essere adeguato alla visione del suo sogno e del suo desiderio.

Nunzio Bibbò
Giuseppe Mazzullo
1978

Non ho mai amato presentare artisti ai cataloghi. Mi è sempre apparso un atto superfluo e, il più delle volte, paternalistico. L’arte che vale si impone da sola, quella buona, s’intende. E il pubblico deve giudicarla da solo, con reazioni sue, anche se non fossero appropriate e specificatamente aderenti al testo critico.
Non importa: la produzione artistica deve esplicare il merito suo, connaturato, di stimolare cultura nell’uomo.
Se accetto di scrivere poche righe su Nunzio Bibbò, è perché mi appare doveroso segnalare un giovane, anche se già qualificatosi per l’insegnamento al Liceo Artistico di Brera e attualmente operante al Liceo Artistico di Benevento, che si distingue per il suo forte ancoraggio all’autenticità. Durante il mio lungo insegnamento, infatti, all’Accademia di Roma, ho sempre raccomandato ai giovani di “vedere” tutto, di catturare con l’occhio ogni nota qualificante che appare nelle produzioni dei più vari artisti, per assimilarla e “mediarla” con la propria natura, ma poi, appunto, dimenticare tutto dopo aver assunto il meglio e accingersi ad essere sé stessi tenacemente.
È stato appunto questo il cammino di Nibbò. Qua e là, nella sua produzione iniziale, si può scorgere qualche ricordo di artisti influenti, e in particolare di quel grande Arturo Martini attraverso la cui opera tutti siamo passati e che seppe drammatizzare e primitivizzare la sua scultura fino a farla apparire, nei pezzi più eloquenti, il relitto di una civiltà antica. Ma il merito di Bibbò è quello di aver operato una lettura personale dei Maestri e di essersi identificato come figlio di un antico territorio qual è l’Alto Sannio, per cui le civiltà sepolte, là, nella sua terra fatta di miserie e di vecchie schiavitù, sono tuttora viventi nei volti scavati delle donne, dei fanciulli, dei vecchi, tutti personaggi della sua tormentata scultura. Che può esser definita un significante atto di fedeltà alla pesante realtà meridionale.

… così belli i nudi nel loro primigenio e disordinato vigore …
Ugo Moretti
1985

Un bronzo brunito, un albero divelto, graffito nella sensibile corteccia dalla violenza ingiuriosa degli uomini, ma ancora palpitante di vita nel segreto delle linfe, su cui approda e si erge un giovane colombo scampato all’incendio del bosco, e canta la sua protesta. E da un altro bronzo, dilacerato tra le macerie di un bombardamento atomico, si alzano due teste di vittime incolpevoli per l’estrema ribellione. Su questi parametri procede l’arte di Nunzio Bibbò, basata sui convincimenti etici che informano la sua vita. Il rapporto con la natura è fondamentale con la sua scultura: appassionato e severo, il concetto di Bibbò lega sempre all’uomo ogni forma di espressione dell’arte. Come tutti gli uomini di gusto e accorti, Bibbò sente ed assimila quei risultati della storia contemporanea che sembrano positivi al suo temperamento, ma scarta inesorabilmente quelli suggeriti dalla moda o dal mercato o indicati imperiosamente dalle sette critiche.
La sua plastica è inventiva, fantasiosa, irruente. I paesaggi che crea, come quinte di una rappresentazione – verso la quale l’estro di Bibbò è proclive – accolgono gruppi di figure jeratiche, come fissate in una atmosfera magica e in attesa. Qualcosa si spande nei volti delle figure – a volte indistinti a volte segnati dalla luce come ritratti – come una umana speranza. Corpose e altresì spirituali – ma non mistiche – le figure di Bibbò – uomini e donne – portano dentro le vene di bronzo o di argilla lo slancio vitale verso l’esistenza liberata dalle suggestioni e dagli asservimenti a ideali scaduti. Nella sua condizione di artista, Nunzio sente doppiamente questo anelito, come una nuova conquista della sua generazione che si affranca dalle pastoie dialettiche e sofismi concettuali. Il fastoso marinismo che attingeva dal vocabolario dei sinonimi delle espressioni formali e distribuiva moduli personali gelosamente custoditi e datati, è stato sommerso dalle invasioni ribelli, superato dall’implacabile corso della storia.
Nunzio Bibbò è giovane e intatto da corruzioni, l’alta dignità delle figure aggruppate in assemblee civili dimostra in lui un rispetto della personalità umana, illustra la consapevolezza della comunità nel contesto dei rapporti che sono alla base della società. Egli è originario dalla gente sannita, contadina e premurosa della terra, grata alla natura madre e dea dell’antica razza. Tra i sanniti e gli etruschi corsero indimenticati legami di alleanza in opposizione alla preponderanza delle armi di Roma, e forse questo legame si è ricongiunto in Bibbò nella cui scultura si fondono i motivi arcaici del mondo etrusco movimentato e vibrante con quelli dell’austera linea del medio evo.
La materia corrosa e sofferta delle sue sculture (specie i nudi e le figure isolate a cera perduta) è riottosa all’aggraziamento della bellezza. Ma sono così belli i nudi nel loro primigenio e disordinato vigore, che sembrano salvati per miracolo alla violenza e alla tempesta e splendono nella loro purezza e integrità.
La controprova della validità della plastica di Bibbò sta nell’opera grafica. Le figure e i paesaggi sono ricavate da un’analisi approfondita del segno che non concede agli effetti facili; e chi sa leggere nell’intrigo fitto di linee e volute, di riporti e di sovrapposizioni, capisce quanto sforzo compie uno scultore (abituato a correggere col pollice uno screzio di argilla) a premeditare e a contenere l’emozione del pennarello o della tempera, che non si possono ritoccare. Non sono più appunti a memoria, ma opere definitivamente passate alla pittura, i cui valori tonali e cromatici hanno una loro esistenza e fattura autonoma. La suggestione dei contrappunti tra la pittura e la scultura è rigorosamente controllata sotto la presidenza di uno stretto e attento senso del frugale, che sempre Nunzio Bibbò ha osservato: per vocazione e per scelta, traendone la gratificante soddisfazione di un artista di riconoscere sé stesso nelle figure e nei gesti delle opere che sono scaturite dalla sua sensibilità e dal suo pensiero, senza artifici r con umana e solare limpidezza.

Nunzio Bibbò
Bruno Sestili
1987

“L’artista non soffre troppo della difficoltà che gli oppone la materia riluttante, e anzi la sfida, e gode del trionfo.” (Benedetto Croce)

…. E’ certamente meno agevole l’uso di categorie estetiche correnti per la definizione dell’opera di uno scultore come Nunzio Bibbò. Nell’unica precedente occasione in cui ebbi ad occuparmene, ne mettevo in risalto il vitalismo, potendo ancora riferirmi esclusivamente ad un universo, visto sub specie humanitatis, del quale mi impressionava anche la dovizia della cultura visiva, vitalizzata da apporti estendentesi dalle civiltà primitive a quelle classiche, dall’espressionismo medioevale a quello contemporaneo.
È naturale che, in scultura in particolar modo, l’innato talento e la maestria acquisita risultano di non poca utilità, per giungere ad una espressione adeguata di un quantomai ricco patrimonio di immagini; specialmente quando, come frequentemente accade nell’opera di Nunzio Bibbò, si tratti di chiudere e organizzare, in giri sintatticamente ineccepibili, gruppi complessi, variamente articolati e densi di sfumature nelle configurazioni psicologiche.
Oggi, nelle grandi composizioni dei Paesaggi, in pietra o in terracotta, la medesima sapiente concertazione di masse e di volumi è armonicamente mossa in distese solennità, intervallate e intessute di movimenti larghi e lenti, rese ognora vibranti dal sapiente gioco del gradinato e, con tempi imprevedibili, sferzate da scavi profondi di occhiaie perforate.
E veramente, in questi paesaggi pietrificati e adusti, come nelle dolenti immagini di esseri umani di ogni età e condizione, sembrano rivivere, come ha scritto Giuseppe Mazzullo, “le civiltà sepolte … nella sua terra fatta di miserie e di vecchie schiavitù”.

I paesaggi ancestrali di Nunzio Bibbò e la rinascita della scultura italiana
Dario Micacchi
1988

Da quando son tornati di moda e attivanti il mestiere dello scultore, il genius loci, la manualità, la materia primaria del dare forma, moltissimi scultori hanno riscoperto il masso e tanto si industriano con raffinatezze di linguaggio per avvicinare quanto più possibile la forma della scultura al masso che fornisce la materia primaria. Dopo le esperienze delle neoavanguardie è un percorso a ritroso ritenuto selvaggio e anche vicino alla natura e alla naturalezza. Oppure, con un vero spreco d’ingegno, e con operazione tutta mentale, cercano la forma della scultura nelle figure e negli stilemi della plastica antica saccheggiando tutti i musei possibili con un manierismo estenuato e raffinato. Inseguono un’idea gelida e inerte della scultura e non si rendono conto che, in maniera “colta” arrivano al masso e non alla forma. Li muove una nostalgia della bellezza antica che sta nei ruderi e nei musei e si ritiene che solo tale nostalgia possa abitare artisticamente il presente.
Credo che da questa strada così ben coltivata che porta dalla forma al masso non verrà mai vera rinascita della scultura, tantomeno della statuaria. È possibile, invece, che una rinascita venga percorrendo la strada che porta, magari a zig zag, dal masso alla forma. L’occasione splendida di una riflessione profonda e poetica sul problema plastico così attuale ce lo offrono alcune sculture altamente formali di Nunzio Bibbò che variano, in grande e in piccolo, un motivo di concezione ed esecuzione originale ce possiamo definire come paesaggio, Paesaggio ancestrale. Ce ne sono in terra refrattaria di Spoleto cotta e in pietra di nenfro. Il masso da cui Bibbò parte non è soltanto materia che egli ama e sa potenzialmente bella, bensì un nucleo grumo primordiale che ha un sedimento d’immagine tanto nel suo io profondo quanto nella storia delle forme della scultura in Italia dai tempi più antichi. Nel masso di materia è inglobata la forma lirico-esistenziale-storica: bisogna con energia lieve, paziente, a volte con grazia e delicatezza, liberare il masso dal sovrappiù fino ad arrivare alla forma, all’immagine. Nello sviluppo secolare della scultura e della pittura in Italia, dalla tradizione italica e della Magna Grecia a noi, troveremo sempre il dosso, la collina e la montagna isolata o a catena, entrano nella scultura della forma e dell’immagine a caratterizzare la qualità dello spazio e una certa situazione ambientale.
Le sculture che Nunzio Bibbò titola “paesaggi” sono delle sculture archetipe dalle quali si generano le forme, le più ricche e varie, secondo possibilità immaginative inesauribili. Ci sia consentito un piccolo paragone di comodo. Tutti conoscono le strutture saline che crescono, cristallo su cristallo, nell’acqua, oppure l’accrescimento per espansione geometrica di solidi di certi minerali. Nunzio Bibbò segue un’immaginazione costruttiva che è guidata da una possente energia che lo porta ad occupare lo spazio, a dominarlo, a concretizzare l’energia di una volumetria che aggetta in tutte le direzioni. È questa certezza primordiale, archetipa di occupazione e tenuta umana dello spazio con materiali concreti che sempre ha fatto gli scultori veri e grandi.
Così per Nunzio Bibbò un masso è un nucleo primordiale che contiene infinite forme di una storia possibile degli uomini che muove da un archetipo ma va in molte direzioni. E per essere generatore di forme il masso di terra refrattaria o di nenfro varia col variare del punto di vista, non ripete mai la stessa figura ma sembra ruotare come un prisma dalle mille facce con aggetti di volumi e con rientranze, con pieni e con vuoti, con volumi di luce e cavità in ombra. La terra refrattaria spoletina con la cottura prende degli stupendi toni rosati e gialli di una tenerezza tutta italiana, di colori che possono essere sentiti come Greci o Italici o moderni tra Morandi e i cubisti Picasso e Braque del periodo analitico. Mi sono trovato spesso, sul fare del tramondo al Circo Massimo, di fronte ai grandi ruderi del Palatino; è incredibile come il colore che la luce solare occidua dà all’antico cotto sia vicino al colore della terra refrattaria che cuoce Nunzio Bibbò.
È il colore dei resti di un’architettura e di un materiale ma è anche un colore che alla fine si deposita nel più profondo dell’immaginazione e della memoria. Ecco, allora la qualità ancestrale di questi paesaggi italici e coi loro colori e anfratti, vette e voragini e aperture di porte e finestre che lo scultore ha ripercorso sulla materia modellando, levando, aggiungendo, facendo tagli come ferite, movimentando in modo straordinario le superfici dei volumi quasi ripercorresse coi sensi, la memoria e anche con la prefigurazione, la storia combinata della natura che ha fatto e modellato questi luoghi italiani. I Paesaggi ancestrali ricordano molti luoghi veri o dipinti o scolpiti come generazioni primordiali di paesaggio e di territorio: hanno una valenza stilistica e una valenza psichica. La loro grande novità sta nel fatto che sono immagini della presenza del passato magari dato per apocalittici frammenti come fanno i Poirier. Sono immagini di una natura-città che possiede energia vitale per crescere. Se si gira intorno ad uno qualsiasi di questi Paesaggi ancestrali si può vedere che ogni sua faccia può generare altre forme, chiude una energia che può generare altre situazioni della scultura, altri volumi in espansione nello spazio a 360°. Sono convinto che tale energia che muove dall’interno genererà altre forme e altre immagini capaci di espandersi nello spazio e di occuparlo plasticamente, umanamente, poeticamente.
Il passo primordiale era quello di passare dal masso alla forma seguendo una pulsione schietta antica-moderna che viene da una cultura italica e nello stesso tempo moderna da un archetipo sedimentato nel profondo dell’immaginazione. Quando uno scultore può scolpire, con plasticità pura e non descrittiva, un’immagine che appaqrtiene al suo io profondo come alla Natura-Storia allora può dare forma con naturalezza e verità a sculture che si possono dire moderne.

Ideologia e favola nella scultura, tutta scultura di Nunzio Bibbò
Giuseppe Selvaggi
1988

Nunzio Bibbò è uno scultore difficile. Nunzio Bibbò è uno scultore di presa immediata su chi guarda e gira intorno ad una scultura; quindi Bibbò è, anche, uno scultore facile. Nunzio Bibbò è uno scultore-monumento. Nunzio Bibbò è uno scultore di analisi, da quardare, anche, nel particolare.
Quindi è uno scultore anti-monumento. Ma la sua scultura si innalza a monumento. Nunzio Bibbò provoca, anche nella terracotta, il grigio eterno della pietra, segno universale della scultura. Ma Nunzio Bibbò provoca, anche nelle sculture pur senza diretto intervento di colore, significati e comunicazioni ottiche di colore. Ad esempio la luce del giorno o la luce della notte, colori opposti, escono dalle sculture di Nunzio Bibbò. La grande scultura determina un girotondo visivo, persino quando è superficie lineare, da bassorilievo. Nunzio Bibbò provoca circolarità, ma è, anche, linea di scultura di aperta facciata, com’è la scultura. Nunzio Bibbò è architettura. La scultura è la sorella d’arte di parto gemello dell’architettura. Non c’è scultura se non è architettura, come non c’è opera di architettura che non sia scultura. Una perla d’arte architettonica vista da lontano o dall’aereo, o vista con occhio esperto a queste aperture visive anche standole vicino, o standoci “dentro”, deve essere una scultura unitaria. La rara e sapiente magia della scultura come architettura è la forza primaria della scultura di Nunzio Bibbò. Cosa significano queste ed altre qualità di contrasto? Che Nunzio Bibbò è uno scultore difficile perché facile, misterioso perché limpido. La somma: Nunzio Bibbò è uno scultore, uomo d’arte di un’arte in cui non si può operare inganno. La scultura è, oppure cade. Certo può reggersi in piedi, ma cade nell’occhio. La scultura di Nunzio Bibbò resta nella memoria. Significa che di peso e di tondo, di altessa e di base, tutta è entrata dentro.
Per Nunzio Bibbò, alla ricerca di una definizione, si potrebbe parlare di scultura narrante. L’esempio della tenera pietra lasciata pietra, anzi come tale esaltata, innalzata a pietra-Monte per simularvi il racconto di un paese-Castello (e Bibbò ne ha più esemplari nella sua più recente fatica d’artista), equivale ad un capitolo narrativo di romanzo. Si potrebbe con queste sculture di Bibbò costruire una rappresentazione sacro-umana, ed il sacro sta per sacralità laica, cioè senso sociale. Ed insieme la scultura-paese o più pietre raccolte in una unità narrativa trasmettono vibrazioni di sottili incantesimi. Il racconto di pietra di Bibbò determina una commistione di favola e di denuncia della miseria abitativa cui spesso è costretto l’uomo: sia esso abitante delle periferie dell’entroterra sia abitante delle metropoli. Queste sculture magiche di Bibbò, ricavate da un sasso tenero dalle tinte dei cieli di piombo, sono una ricerca e una conquista di novità, per cui questo scultore va indicato come un partecipante alle ansie di ricerca che dividono oggi la produzione d’arte rituale (anche a firme illustri) da quella più gustabile e più difficoltosa nata da vocazione e da urgenza di ricerca.
Nunzio Bibbò apre un suo capitolo di lavoro che potrebbe portarlo a determinare una sua scultura partente da suggestioni e rappresentazioni al limite del popolare e scattante di una sorta di scultura anche (questo “anche” è necessario) ideologica. Questo aspetto della scultura di Bibbò va analizzato a fondo, leggendo nelle pieghe di queste pietre lavorate, ed illuminate. Si, illuminate. Nel ricordo, poiché la scultura è qualcosa che si tocca con lo sguardo ma rimane dentro come una realtà materica vivibile, quei fori-finestre trasmettono luci e vita umana, luci che si accendono e spengono cioè, vita è fatta di si e di no, di dramma anche.
Il discorso su questo essenziale momento bibboiano (l’aggettivazione del nome è meritata perché appartiene ad uno scultore di accentuata presenza nella povertà inventiva di questi tempi, che investe anche le ricerche d’avanguardia), è qui appena accennato. Ci sono risvolti da portare su un piano di chiarezza, anche polemica, che fanno di questo artista nella centralità della sua giovinezza, un polo di attesa, già positivo nei risultati in atto.
La scultura moderna che fa quasi da spartiacque tra l’uso di materie consistenti nel senso di solidità corposa (marmo, terracotta. bronzo, legno), e le soluzioni al limite del casuale o della provocazione materica, in fatto di fragibilità della materia e infrangibilità dell’idea rappresentata a questa scultura è l’ultima, con uso di cartoni, di Umberto Boccioni. Da allora, sull’artista del successivo mezzo secolo e più, pesano condizionamenti che pongono interrogativi sulla verità della scultura. È anche scultura visiva l’incrocio impalpabile di fasci di luce proiettati nello spazio. Quindi rimane il coraggio di rientrare nei grandi mezzi di tradizione ma con la necessità di provocare energie nuove e sensibilizzanti per le nuove generazioni educate a ritmi diversi, non solo musicali. Appare da questre pietre-narranti di Nunzio Bibbò il coraggio di una figuratività di scultura che va oltre l’occasionale, per fermarsi in risultato di ricerca e di capacità poetica. A parte la solidità del mestiere, che è componente necessaria quando si affrontano operazioni di ricerca da documentare come operazioni di sapienza d’artista ed evitare le cadute nel falsario del moderno, Nunzio Bibbò mostra una capacità d’artista multipla ed unitaria, sul filo del fascino ed insieme di quella carica scompositiva che è l’indicazione della ricerca. Alcune sue figure di terracotta, un paesaggio ricavato dalla terracotta invece che dalla pietra denunciano queste situazioni, in positivo, che si vanno sviluppando nella scultura di Nunzio Bibbò. Sul quale il discorso critico, insieme al consenso visivo dei goditori di scultura, è davvero appena apertp, anche se si tratta di un artista già di successo. È una prima conclusione a vantaggio di un artista, questo saperlo ancora inesplorato e chiuso nel suo potenziale Castello espressivo. Come una delle sue Pietre narranti.

Nunzio Bibbò
Mario Maiorino
1991

Nunzio Bibbò contempla due tendenze essenziali con la sua scultura: che in pari tempo si assesta nell’astratto, in quanto vive nel pronunciamento del non finito, nell’insieme di un unico pensiero che è forma e in una sola accoglienza che è volume; ed è figurativa, chè, comunque, la sua prevalenza, nel riguardo al vero, è costruita come sui brandelli di una carne e sulla rappresentazione di una ricerca dosata dell’espressione, del detto e del non detto, del fatto e non costruito, dell’intimo che sfugge ma che senti nella delicatezza dei momenti, e della fisionomia che accentua la sofferenza della materia che sembra sfuggire ai tocchi, ai rilievi, alle trasfigurazioni. Eppure la scultura di Bibbò è tutta una totale trasfigurazione, una resistenza al linguaggio, ma sempre in un suo linguaggio, in un’accoglienza storica della fisicità della forma. D’altro canto Bibbò rivela ancora una caratteristica per un suo complesso che affonda nell’esistenza dell’ovulo, e quindi della rotondità, del viso, del corpo intero, dei volumi che si fondono nel buio e nella luce, nell’esuberanza tormentata della figura. Ed è apparente, in quest’analisi, il dato essenziale della certezza tra l’unificazione e modulazione dell’iconografia, giacchè, mentre per un verso c’è esuberanza di tormento proprio per quello sfuggire alla perfezione dei tratti e dei gesti, per l’altro v’è l’alta poesia del non finito, che non fa disperdere il nostro umanesimo di sempre, come dell’uomo dello scavo nel frammento di una vita remota, e di una presenza nel tempo, con l’origine e il divenire. Questo è un raggiungimento elevato nel pensiero della cultura di Bibbò; un raggiungimento che vive d’asperienza e d’esuberanza, d’antica perennità e di presenza nell’attualità.

Amanti 1988; Amanti 1989, Figura 1988

L’essenza del ricordo. Nunzio Bibbò
Alberto Gianquinto (Phil.)
Roma, 2003

Se l’arte è il linguaggio della memoria e dell’immaginazione, del mito e dell’utopia, nell’opera di Nunzio Bibbò si può vedere in modo palpabile come il centro segreto, più profondo e nient’affatto inconsapevole della ricerca sia posto (o sposato) tutto sull’essenza del ricordo: si vuol dire, con questo, che l’atto e lo sforzo di immaginazione creatrice, per motivi esistenziali che hanno radice nella storia dell’artista, ripiegano sul passato anche più lontano, fino al mito, onde recuperare il senso del presente e, immanente, non conclamato (quindi senza retorica alcuna), per cogliere l’ideale che scaturisce dalla riflessione formale sulle fonti e sulle origini della sua esperienza culturale; quasi lo slancio da lontano per gettarsi nella drammatica mancanza di senso del presente storico e dissentirne in un silenzio pieno di rimprovero. È l’indice del bisogno dell’impegno etico-sociale, di quella proiezione progettuale che si può soltanto evincere dalla relazione intima che le strutture formali hanno col mondo dei significati dell’artista: insomma, con un futuro auspicabile degli esseri umani, con l’utopia.
Essenza del ricordo, ho detto, perché del ricordo, ciò che unifica i suoi diversi contenuti, ciò che permane, non è l’episodio, il fatto o la narrazione (un racconto), ma la sua sostanziale natura, il suo valore più universale e significante: essenza, nel senso aristotelico di “ciò per cui una cosa è quel che è”: natura, dunque, e genere-specie della cosa, cioè, qui, nel ricordo. In termini di analisi della psiche, quest’essenza è l’archetipo. L’essenza del ricordo è quando occorre ed è necessario per comprendere il presente e per compiere quel semplice balzo possibile in futuro lontano. Essenza, natura e specie dell’evento passato e suo archetipo (anche Micacchi, 1988) individuale e collettivo, che pone in essere quegli stati dai quali le forme si producono, si generano, attraverso una conversione analogica dell’immagine, cioè in una metafora dell’oggetto mentale, il ricordo. Una creazione, che è un rigurgito dalle sacche della mente. E vedremo come si esplicita questa dimensione soggettiva, mentale e culturale, in dimensione formale.
Consideriamo ora le priorità di questa conversione analogica dell’essenza del ricordo nella forma. L’arte figurativa (e per l’artista, qui la figuratività sta nel fatto che “l’opera produce comunque un’immagine di forme”) (Bibbò, dic. 2000) è impegnata in un atto mimetico, che si esplicita in molti modi e nell’opera di Nunzio Bibbò la mimesi è diretta a cogliere, non il reale fenomenico, ma l’essenza del reale (pur tuttavia icastico, di immagini forti di un’evidenza raffigurativa), come tale contrapposta all’accidente, all’accadere molteplice: la memoria coincide così, non con il reale, ma con la sua assenza archetipa. Ciò vuol dire che il tema, il contenuto, non è e non può essere narrazione, né un atto descrittivo: l’intero spessore del senso dell’opera, al di là dei singoli contenuti, si esplicita in una composizione di essenzialità, da cogliere nella cosa, nelle singole molteplici cose del vivere umano: lo stare insieme, l’amore, il luogo del vivere.
Quindi mimesi, non del reale oggettivo, ma dell’immagine-ricordo, del ricordo che s’è fatto immagine, ricondotto alla sua fase archetipica. L’artista è così posto “fuori dai limiti del tempo reale”, con tutto il “trauma” di questo spiazzamento in un altro tempo del tutto irreale (astorico)” (Bibbò, cit.).
Ancestrale, non a caso, è stata chiamata dall’artista una serie di oggetti; ma il concetto vale per tutta l’opera, l’attraversa per intero. Per questo non vale qui l’opposizione che Lukas ebbe a portare, a proposito dell’analisi del romanzo dell’800 (La teoria del romanzo, 1920), tra narrare e descrivere, mettendo a confronto Zola (Nanà) e Tolstoj (Anna Karenina) sui due episodi della corsa di cavalli e della scena del teatro. E neppure vale sottolineare contenuti “popolari”, perché invece è di stirpi e di popoli che si parla (l’Etruria e il Sannio), che sono o diventano universali nell’immaginazione dell’artista, e sono quindi presenti ancora oggi, pur nella disgregazione sociale e politica a cui siamo costretti: essenze di popoli, dunque; e forse una nostalgia di ciò che scompare e ci imbarbarisce. Si scende così alle soglie, ideali, immaginate, di un ricordo che è insieme sapere e cultura, ma anche realtà visiva ed esperienza vissuta, di quella che si chiama arte dell’Italia antica, che nasce negli agglomerati a struttura protostorica, a cinque multiple (Manduria, Spinazzola, ecc.) e nelle città d’altura del Lazio e che costituisce le tradizioni campano-sannite e dei territori falisci, la cultura villanoviana dell’Etruria meridionale, dove furono manipolate le figure fittili dei secoli IX-VIII a.C., prime testimonianze della plastica italica.
Nunzio Bibbò ha grandi maestri alle spalle, diretti e ideali, ma di tutti, come si può vedere, coglie solo quanto a lui occorre, per tracciare il suo percorso: di Medardo Rosso la luce e la velocità compositiva e un’impressionistica negazione del definito; di Brancusi un plasticismo, come vedremo costruito su pure leggi compositive e la ricerca di forme “generative”, consonanti con le sue essenze; di Giacometti le frantumazioni corrodenti e i rapporti spazio-masse, che Bibbò (e anche su questo torneremo) riformula con una grande complessità; di Moore l’arcaismo e la complementarietà di spazio e forme. Ed i maestri diretti, poi: Greco, con le sue terracotte etrusche, e Perez e Mastroianni (di cui ama il chiaroscuro e la dinamica disarticolata delle strutture), Mazzacurati.
Formalmente l’“essenza” si coglie in quanto forma compositiva e in quanto forma plastica, nelle quali si compendiano tutti gli altri caratteri dell’opera di questo artista.
La “forma compositiva” ha qui sempre una duplice struttura, quella dell’archetipo, di cui s’è detto, e quella del frammento, che gli viene dai maestri, con una sua funzione scompositiva (Tallarico, 1990), cioè quella di una figurazione consumata (Bibbò, 1993), sottoposta alla decadenza del tempo, quasi “scheletro residuo di una grande cultura” (ivi), che è simbolo, emblema archetipico, essenza della nostra, attuale.
L’essenzialità della “forma plastica” fa subito dell’oggetto un “frammento” della storia più remota, che ci conduce e ci accompagna fino ad oggi, ed una “carica scompositiva” (Selvaggi, 1988), frammento della natura. Qui si vede il nesso stretto delle due strutture della forma compositiva: l’essenzialità dell’archetipo e la frammentazione formale, nella quale storia e natura si intersecano fino a fare della natura la fonte antica, storica e archetipica, del dramma presente. Storia e natura, non narrate, non descritte, ma colte e catturate nel loro essere originario. Si è detto “natura-città” (Micacchi, cit.), “natura-castello” (Selvaggi, cit.), ma anche natura-figura, natura-umanità: non c’è dunque “ambiente”, non si tratta di “paesaggio”, ne c’è “personaggio” di un qualche “racconto”.
Plasticità essenziale, dunque, mai decorativa, perché l’impulso emozionale che la porta ad essere non ha necessità di filtri, è lontana da plasticità ornamentali, scenografiche. Quindi la materia, i materiali, sono funzioni dell’idea e pertanto “necessari” alla costruzione plastica, che deve essere su materia fragile, per venire velocemente lavorata: lavorata coi sensi e con la sensazione della transitorietà del ricordo. Per questo le tenerissime pietre di nenfro e di macco, la creta e l’argilla, le ceramiche per terrecotte e al limite il bronzo, per il suo significato arcaico.
Una lavorazione che aggetta e si ritrae, che genera pieno e vuoto e, dunque, luce ed ombra, volume e superficie, spazio e percorso temporale, e che sceglie la materia in relazione anche al colore che essa ha di per sé o che assume con la cottura.
Ma qual è la sequenza generativa di queste proprietà del linguaggio scultoreo dell’artista?
Si può con sicurezza dire che sull’opera aleggia una prima, fondamentale, dimensione della spazialità, che fa da contenitore del senso e alla quale il momento emozionale dell’artista si appoggia per prendere le mosse: è lo spazio del vissuto-esistenziale che genera il bisogno della volumetria scultorea ed ha la sua radice nella ricerca di un’espressione della memoria; è in questo genere di spazio semantico che l’emozione viene raggiunta, per restare poi “fissata” nella forma: “raggiunta”, cioè, nel toccare l’essenza, nel sondare il tempo, fino alla radice del mito. È lo spazio dei significati archetipici, che spinge all’indagine del tempo e si pietrifica nelle modulazioni delle forme, nelle articolazioni di una sintassi scultorea. “Emozione” qui non sta per ripiegamento intimo, non significa autobiografia tout court, anche se poi è su questo “implicito” che si misura l’autenticità; emozione, generata dal valore ieratico, quindi sacrale, grave e solenne, della sua società-natura (le “assemblee” o gli agglomerati “ancestrali”) e della figura-natura (gli amanti, le figure femminili).
Quella prima dimensione, psicologica, emozionale, dello spazio genera il volume come tensione espressiva di essenze: la plasticità nasce da un bisogno di scendere al cuore della visione del tempo ed “usa” la materia. Materia, in quanto “comunicazione ottica” (Selvaggi, cit.), che porta con sé il colore delle terre di cui è fatta. Ed il colore di quella materia, nei suoi timbri notturni, ha in sé la forza della dissoluzione della forma (Bibbò, cit.), e nei suoi dolorosi gialli-rosati, la forza della “luce del ricordo” (Selvaggi, cit.). Colore-luce, generati dalla materia, che a sua volta genera una seconda, altrettanto fondamentale dimensione della spazialità: lo spazio, non come contenitore di un accadimento, ma come necessità formale dell’essenza; non lo spazio creatore di quelle volumetrie che appartengono invece all’altra dimensione della spazialità, quella semantica, ma uno spazio ripiegato, riflesso, per così dire rivolto agli specifici archetipi del ricordo e che si fa e si consolida in “volume specifico”: uno spazio sintattico che impone un’osservazione “a tutto tondo” evidenziando la spazialità dell’immagine ed esplicitando la temporalità sintattica del percorso formale dell’opera.
Si potrebbe dire che lo spazio del senso generatore delle volumetrie si rapporta allo spazio prodotto nella materia (con il gioco del pieno-vuoto, di luce-ombra, di volume-superficie) come un contorno alla massa, come un alone d’aria al pianeta. Quest’altro spazio, riflesso, che non crea l’immagine ma guarda al ricordo, spazio senza enfasi, spazio architettonico, non monumentale, spazio che ora guarda alla dolorosa dinamica psichica che coglie il passare del ricordo: spazio dell’emozione. Dinamismo, abbiamo detto, che non è “futuristico”, non ricerca di “simultaneità”, ma è tutto impressionistico, proiettato nel cogliere una “en plein air” della memoria, spinto a cogliere il suo carattere transeunte, come un tramonto di Monet. Di qui l’impressione di un non-finito, di un non-detto (Maiorino), che altro non è che modo di cogliere l’archetipo. Il dato dinamico dell’opera ha origine tutto nella possibilità di dare forma allo scorrere e al trapassare del ricordo. La natura e la figura-natura diventano in questi termini forme che incombono dal passato, presenze rese indefinite dal tempo che le incrosta.
La spazialità vibrante ma non ampollosa fa di Nunzio Bibbò uno scultore per un verso “analitico” (Selvaggi, cit.), ma per contro proteso alla “sintesi” dell’essenziale.
L’interesse per la teoria del segno (Bibbò, cit.), che si scopre, per esempio, nello stretto legame tra le sculture e le incisioni, più che con altro (acquarelli, tempere, olii), mostra la consapevolezza con cui l’artista ha compreso come i codici degli effetti (chiaroscurali e luministici) nella strutturazione delle masse sono le determinanti sintattiche (nelle loro connessioni temporali) dei valori simbolici del significato.
C’è un’etica sociale che soggiace, immanente, all’opera, e non ha “gesto” estroverso e non può avere retorica: il “gesto” è introspettivo e, in questo senso, passa sostanzialmente al di sopra dell’esperienza manieristica e barocca, di quella cultura “partenopea” che è fatta di eloquenza, per scendere invece indietro, nell’allusione al primitivo (Martini), al frammento di una antichissima civiltà italica.

Il guerriero, dalla terracotta al catrame

Luigi Martini

Roma 2004

 

Premetto, questo breve scritto sorge mentre sto strutturando il catalogo, nasce da una necessità personale, quella di testimoniare e chiarire a me stesso la passione con la quale seguo da anni un artista che si apparta, che vive la sua marginalità, dal circuito dell’arte promossa e patinata, senza farne drammi, senza ritenere di essere vittima di un sistema (anche se avrebbe ragione di urlare).

Intendiamoci, non scriverò di forma, di storia dell’arte o di qualsiasi altro aspetto dell’opera di Nunzio che lascio doverosamente a chi ha più mezzi di me (fra l’altro, come ho già detto al mio amico, di fronte all’opera d’arte sono un “ruminante”, digerisco le novità con lentezza).

Sento solo il bisogno di dire ciò che mi pare emergere da una frequentazione insistita, non costretta, ma necessitata dal valore delle verità che le sue sculture – ma anche certa pittura e certe incisioni –, fanno emergere. E, in particolare, di un aspetto che mi sembra non emergere dalla lettura dei testi critici sulla sua opera.

Se osserviamo e indaghiamo con attenzione i soggetti della scultura di Bibbò, possiamo giungere a molte e diverse conclusioni, tutto dipende dalla nostra posizione interiore, dalla nostra sensibilità, dalla disponibilità a lasciarci permeare dall’opera d’arte, da questa specifica opera d’arte.

L’opera d’arte, e, osando, direi più d’ogni altra la scultura, produce, attraverso chi ne gode intensamente, tante e diverse verità, quanti sono coloro che appunto ne sanno gedere. Così anche la scultura di Bibbò parla di noi ogni qualvolta ci mettiamo nella condizione di non sottovalutarne il peso creativo, andando oltre la prima lettura visiva.

Ovviamente le sue sculture parlano di lui, del suo vissuto. Ma c’è, nella sua opera, un segmento che maggiormente ne isola la funzione autoassegnatasi, seppure inconsapevolmente?

Bibbò, ma anche tutti coloro che hanno scritto del suo lavoro, dice che i suoi soggetti sono: Amanti, Coppie, Assemblee, Miti, Paesaggi.

Quasi mai viene citato – nè dall’artista, ne dai suoi critici – un soggetto: il Guerriero. Perché quest’apparente dimenticanza? Forse perché il guerriero è ritenuto una delle diverse forme attraverso le quali si manifesta il mito? Oppure non lo si prende in considerazione perché, apparentemente, in contraddizione con la chiave di lettura attraverso la quale possono essere lette le sculture che s’innervano nella materializzazione degli altri soggetti?

E, ancora. Se pensiamo ai soggetti elencati poche righe fa, ci accorgiamo che trattano della rappresentazione di alcune condizioni dell’esperienza umana o della cultura che ci tramanda la storia, e che vedono Bibbò partecipe, seppure in modo originale e personale, di un’esperienza collettiva: l’amore, il formarsi dei gruppi sociali, il luogo e la forma della memoria interiore.

E il guerriero? Ne possiamo parlare in questa stessa chiave?

Non credo. E, allora? Perché compare nella sua produzione? E se il guerriero fosse Bibbò?

A me nessuna opera di Nunzio, mi parla di lui più di quanto lo riesca a fare la lettura interiormente disponibile – da parte nostra – dei suoi guerrieri.

Il guerriero attraversa quasi ogni epoca delle sue ricerche, solo negli anni della selezione dei linguaggi e delle forme altrui il guerriero non lo troviamo. Emerge, nel suo lavoro d’artista, quando si materializza la sua forma espressiva (i professionisti direbbero la “sua cifra”), come ad indicare una presenza oramai matura, la raggiunta consapevolezza inconsapevole di una funzione guadagnata nel lavoro di scavo dentro sé. Tutto questo passaggio lungo, dalla fase di assimilazione e selezione del visto nei Maestri alla maturazione del proprio linguaggio, della propria forma espressiva, si palesa contemporaneamente all’apparizione del guerriero/Bibbò.

Da quel momento lo troviamo in ogni momento della sua continua ricerca sulle diverse materie, nella sperimentazione delle diverse tecniche espressive. Per questo il guerriero/Bibbò è lì a registrare i passi in avanti, le difficoltà, i mutamenti della società che costringono l’artista a trovare nuovi registri sui quali aggiornare la sua offerta di forme scultoree adeguate a un nuovo sentire, non completamente conscio, almeno fino a quando la manipolazione della creta non lo renderà chiaro.

È lui stesso – in guerriero/Bibbò – a sottoporsi alla martoriante esperienza della ricerca, come lo scienziato/ricercatore che usa se stesso come cavia.

Sto esagerando? Può essere, ma continuate ancora un po’ a seguire il senso strano di questo mio ragionamento.

Perché il guerriero creato da Nunzio mi attrae, da sempre, con grande intensità? Quale forza interiore mi tramette? Parla di me – capitemi, parla di chi lo guarda? – o è Bibbò che mi si manifesta nella forma più chiara e leggibile?

Ricordo Il guerrioro morente, appoggiato ad una colonna antica, a quella sua forma non drammatica, a quel sentirsi coerente e soddisfatto di aver fatto quanto i valori ereditati gli indicavano.

Poi la testa di Guerriero, quasi un teschio che guarda all’interlocutore presunto – ognuno di noi – con forza, convinzione; quasi a dire che è cambiato il contesto nel quale è costretto ad agire ma continua a combattere con coerenza.

E, ancora. Guerriero con la lancia, con il pugnale, con lo scudo, in posizione di riposo o pronto a rispondere ad un’offesa; ma anche a cavallo, con l’amata a fianco che lo saluta.

E, ogni volta, la creta o il bronzo, l’olio o la puntasecca, a ribadire la sua testimonianza, la sua coerenza ad ideali di vita, la consapevolezza di sapere usare “le armi” che gli sono state trasmesse.

Poi, a sorpresa, il Guerriero degli anni duemila, di catrame, ferri, materiali di recupero abbandonati dagli uomini, e il comparire del rosso vermiglio su un corpo squartato.

Bibbò non usa quei materiali per orecchiare certa ricerca d’arte della seconda parte del secondo novecento, o per ingraziarsi certa critica disponibile. Se sceglie un certo materiale per lui inusuale, non organico al sentire dello scultore degli anni settanta-novanta, è perché ne sente il bisogno. Quale? E perché lo usa prevalentemente, aggiungo, con maggiore efficacia proprio per il suo essere Guerriero?

Perché, perdonatemi se insisto, continua a sperimentare sul proprio corpo una nuova condizione umana. La società gli risulta sempre più complessa, ma anche come fosse in atto un allontanamento dai principi, dalle culture attraverso le quali il guerriero/Bibbò s’è formato. Per questo il suo corpo diventa drammatico, il suo sguardo è quello di un imponente impotente, le sue armi sono inermi, pura rappresentazione scheletrica del passato. Per questo muta la materia, come a dar vita, con materiali di scarto, ad un guerriero che non vede come potere incidere sull’oggi.

Per questo, affermo che si tratta del guerriero/Bibbò.

E, non illudetevi, si tratta di una denucia che vi riguarda. Il guerriero/Bibbò chiama ognuno di noi ad un atto di riflessione.

 

una studentessa nello studio di nunzio bibbò

Giulia Gaibisso

2017

L’ho incontrato attraverso la sua opera e la sua voce, quella dell’intervista conservata all’Istituto per i Beni Sonori e Audiovisivi dello Stato. Dalla voce mi è venuto incontro un uomo non perentorio, ma umile che vive l’arte come “qualcosa di sacro, di misterioso”. Sull’onda delle emozioni procurate compirò un tentativo: addentrarmi, attraverso il mio, nel suo mondo interiore.

Il sentimento preponderante davanti alla maggior parte della sua produzione è quello di una forte nostalgia: una nostalgia dovuta alla lontananza da luoghi, persone, ideali. Una passione per ciò che è stato, per ciò che sarebbe potuto essere.

Penso ai paesaggi ancestrali e necessariamente immagino luoghi metafisici, sacri sì ma anche privi di vita, di uomini che li abitino, dunque silenziosi e in qualche modo inquietanti. Sono oggetti che si rifanno ai luoghi di origine dell’artista ma che allo stesso tempo non si concretizzano mai in qualcosa di veramente familiare, reale, umano, visto o visibile dai miei occhi.

Non credo ci sia luogo somigliante a essi. C’è l’idealizzazione di mezzo, quell’idealizzazione che è tipica del ricordo. Un’idealizzazione che rende il passato ameno, culla nella quale rifugiarsi.

Lo stesso sentimento mi provocano le assemblee, nelle quali, è vero, gli uomini ci sono, e in abbondanza. Ma questi uomini sono sempre visti in lontananza, come gruppo compatto, nel quale ho quasi la certezza non si trovi mai l’artista. Lo stesso Nunzio, nell’intervista sopracitata, parlando delle assemblee, fa riferimento a una sensazione di isolamento, a un’esigenza di appartenere al gruppo, qualsiasi esso sia, dal quale l’artista sembra essere dunque escluso, non importa quale ne sia il motivo.

Lo stesso vale per i soggetti “mitici” nei quali, seppur ci sia un chiaro rimando alle forme classiche, a emergere è soprattutto il richiamo a un ideale di vita antico, fondato su una fede salda: nei valori morali, in Dio, inteso come entità ultraterrena alla quale affidarsi ciecamente. È la necessità, soprattutto emotiva, di richiamare alla memoria tempi migliori, sia per l’artista che per l’Uomo. Non è una mera riproposizione formale di un canone, di un certo tipo di figurazione: è l’esigenza di richiamarsi alla purezza. Purezza nella forma come nel pensiero, libero dal vacillamento spirituale.

L’unico tema privo di nostalgia è quello dell’amore.

L’amore è la donna, ma soprattutto è la coppia: è il corpo che si abbraccia, si bacia.

L’ amore è confortante, è faro nel buio, unico nodo saldo.

È redenzione, possibilità di riscatto.

Ragionando, invece, sul materiale prediletto di Nunzio, ho compreso come la sua arte non sia scultorea ma plastica: la creta implica non tanto la possibilità di rimaneggiare la forma fino al concludersi dell’atto creativo (elemento importante ma a mio avviso non fondamentale) quanto più l’opportunità di essere costantemente a contatto con la materia che si intende plasmare.

Ancora necessità di contatto, contatto con una materia “familiare” perché utilizzata nei luoghi natii, simbolo delle sue radici.

L’arte di Nunzio è arte pura, lontana dalla creatività, spesso mistificatoria, del suo tempo. Quando immagino Nunzio, immagino un uomo la cui storia, i cui sentimenti, si esprimono appieno nelle sue forme. È l’unico compito dell’artista contemporaneo: riportare la propria esistenza, rendere fruibile il proprio mondo interiore, sperando ardentemente che lo spettatore possa ritrovarsi in esso.

quel guerriero

Il guerriero è solitario; in questo senso si contrappone alle figure delle assemblee, alla comunità. Se nei gruppi, come ho detto in precedenza, fatico a credere sia incluso l’artista, nel guerriero invece vedo pienamente Nunzio. È in atto una sorta di Transfert. L’identificazione è strettamente connessa all’Antico, alla figura “mitica” del guerriero, virtuoso e valoroso in battaglia. Ma è necessario contestualizzare la scelta del soggetto nella contemporaneità e dunque, il guerriero non può che rappresentare Nunzio.

Un artista come Nunzio è un guerriero soprattutto per l’ostinata necessità di aggrapparsi al passato, alla Terra madre, ai sentimenti più puri dell’uomo, e alla figurazione, quasi arcaica oggi.

Il guerriero è ridotto all’osso, è magro, smunto: si tratta di un teschio a tutti gli effetti.

Il guerriero è mortifero. È una contraddizione: la principale dote di un combattente dovrebbe essere la sua forza fisica, totalmente assente in questo caso. Mi domando ora se questo guerriero sia dunque sconfitto, forse addirittura già morto, oppure se esso sia ancora capace di difendersi, nonostante le sue sembianze. Quale forza lo schiaccia? Difficile dirlo. Guardandolo, però, torna alla mente una celebre frase di Francis Bacon:

Siamo potenziali carcasse.

È la condizione degli uomini. Ed è ciò che vedo in questa testa. È solo questione di tempo prima che ognuno di noi conosca la Morte. Ed è proprio il tempo ad essere rappresentato. Tempo non unitario, bensì dilatato. Tempo plasmatore: è un’onda che colpisce il volto del guerriero, partendo da destra, dove la sua azione si fa più evidente e aggredisce in modo meno efficace la parte sinistra del volto, nel quale ancora rintraccio forme umane, più carnose. Testa mortifera, vicina appunto al dismorfismo baconiano, a quell’esigenza di alterare la realtà, o meglio di svelarla, rendendo forse l’arte più dura ma decisamente più veritiera.

 

quella coppia

 

La coppia: i contorni sfumano, non definibili; forme che invitano all’interpretazione. Si ruota attorno e la scultura si offre in molteplici sbocchi e soluzioni interpretative: la prima impressione è che la coppia sia stante, ferma, i protagonisti uniti nello slancio verso l’altro; poi diviene dinamica, in movimento, come ad annunciare altri possibili futuri.

Fusione di corpi, la prima; teste che si uniscono in forma indefinita e unitaria, una visione intellettuale dell’amore: unione di menti prima che di corpi. Il rimando può essere a Gli amanti di Magritte. Ma, al contrario dell’opera surrealista dove la coppia vive nell’incomunicabilità e nell’alienazione, il “panno” immaginario che Nunzio pone sul volto degli amanti, esprime intimità, unione e isolamento rispetto al mondo esterno. Dunque elezione di anime: “Amore”.

Quindi evolve, con maggior senso del movimento, sicuro nel procedere. In quale direzione? Insieme. Un procedere schietto, ostinato. Le gambe sono tese nella tensione di un passo deciso, senza incertezze o timori, nella consapevolezza che qualsiasi sia il destino, sarà insieme.

Le due letture offerte dalla forma non si annullano, convivono armoniosamente, lasciando all’interlocutore la determinazione di un sentimento dolcemente contemplativo e allo stesso tempo saldo, militante.

 

Il ritorno

 “Il grido” di Nunzio Bibbò

Disegni e grafica nella Galleria “Kontrast”

Axinia Džurova

Nella Galleria “Contrast” sono esposti disegni e incisioni del famoso scultore italiano Nunzio Bibbò. Colui che nel 1980 viene rappresentato nel Salotto dell’Unione dei pittori bulgari in via Scipka 6 e nel 2011, nella Galleria dell’Arte Straniera, con mostre retrospettive di scultura, disegni e grafica. Non a caso le sue sculture fanno parte dell’esposizione del panorama artistico del XX secolo alla Galleria Nazionale di Arte di Sofia (Kvadrat 500).

Chi è effettivamente Nunzio Bibbò scomparso tre anni fa (2014), uomo di figura robusta e bassa, sempre col suo capello non indifferente, personalità emozionale e espansiva, forte interesse per il sociale, legatosi alla Bulgaria, ai suoi tanti amici e scegliendo la bulgara Ekaterina Bibbò come consorte per gli ultimi decenni della sua vita?

 

Affascinato da Arturo Martini e Medardo Rosso, Nunzio pensava che senza misticismo non si possa fare arte, perché gli si toglierebbe carisma. Il famoso critico italiano Cesare Zavattini, in occasione della sua mostra ad Arezzo nel 1979, scrive: “…la sua stilistica però non è fatta schematicamente: perché sotto quei linguaggi si scopre la fiamma, l’urlo di Gemito , che è poi il drammatico appello che viene dalle popolazioni meridionali delle quali Bibbò è indubbiamente uno dei più alti interpreti di oggi” Nunzio è allievo di Emilio Greco – rappresentante del classicismo nella scultura moderna, di Augusto Perez, di Umberto Mastroianni, con il suo astrattismo e di Marino Mazzacurati, e la sua figurazione.

 

L’esordio artistico di Nunzio Bibbò in Bulgaria inizia nel 1980, a seguito della mostra del pittore Ennio Calabria, noto con la sua espressività e impegno sociale. Nunzio porta con se la brezza mediterranea italiana, il mondo della tradizione contadina, ricca di solidarietà, e gli anacronismi tipici del suo luogo di origine (Castelvetere, nell’Alto Sannio, in provincia di Benevento). Un luogo famoso con i suoi “terracottari” – artigiani della tradizione della creta, il suo materiale preferito. Nunzio fa parte di un’atmosfera, di un tempo senza tempo, tipico di questo luogo che diventa mitico dopo averlo demitizzato. Portatore della tradizione della sua terra, portava i segni di quel mondo arcaico, affascinante per la marcata autenticità. I suoi paesaggi architettonici, nei dipinti e nella grafica, con case e mura di pietra, alternate agli stretti vicoli, erano portatori di una memoria storica, ancestrale. Lo stesso si può dire dei suoi paesaggi di pietra, che fanno tutt’uno con la natura e hanno qualcosa di Primordiale. In questo modo la forma effimera e densa s’intreccia con la certezza di un modo autentico e originale, e lo stupore mistico della creazione rammenta la sua supremazia, dimenticata dall’uomo esaltato dal progresso tecnologico. Questi paesaggi che nascono dalla terra come testimonianza archetipica, pieni di vita , frutto dell’autentica modellazione della storia. Lo stesso sentimento trasmettono i gruppi riuniti nell’affrontare le avversità nella vita. Se guardiamo i personaggi disegnati e scolpiti, sono bassi, cupi, con teste rotonde occhi grandi e labbra sottili, il loro archetipo antico non ha niente in comune con i popoli antichi romani, greci, normanni o nessun altro popolo antico che ha attraversato quel territorio. Tutto questo ci indirizza verso le antiche figure italiche mentre la serie dei dipinti e grafiche di figure femminili in vesti semplici ricordano le madonne contemporanee con il suo segno e spiritualità.

 

Durante gli anni ‘70 – ‘80 Nunzio alloggiava in un seminterrato a piazza Vittorio, vicino a stazione Termini e alla chiesa di Santa Maria Maggiore. Lo spazio ricordava le antiche catacombe e, in fondo poteva viverci e lavorare. I corridoi stretti colmi di terracotta, frammenti di scultura e i materiali di tutti i tipi, necessari per lavorare, sparsi dappertutto; l’unico spazio per vivere era composto da un letto in ferro, un piccolo tavolino e pochi accessori per preparare un the o un caffè. Si poteva sempre assaporare una buona pizza in una delle tante trattorie e pizzerie nei dintorni della piazza. Proprio qui, in questa catacomba nascono alcuni dei più interessanti idee e progetti realizzati da Nunzio, per esempio le porte della Cattedrale di Reggio Calabria realizzate più tardi (1988) e parte dei disegni e delle grafiche presentati della Galleria “Contrast” a Sofia.

 

Negli ultimi anni Nunzio ha dedicato parte del suo tempo allo sviluppo e alla realizzazione del progetto del gruppo artistico “Il Grido”. L’idea è nata per aggregare artisti di diverse generazioni (ignorando le differenze generazionali) uniti dal bisogno di essere ascoltati dalla società, cercando punti comuni nella ricerca artistica. Il gruppo era composto dal pittore Giovanni Battista Cuocolo, gli scultori Nino Pollini, Leandro Lottici e Aulo Pedicini e il fotografo Nico Marziali. Dovevano unirsi anche gli artisti bulgari Liubomir Dobrev, Stanislav Pamukschiev, Ivo Hadjimischev (fotografo), Vladimir Schukisch , gli artisti olandesi Marko Markov (suo amico bulgaro di adozione olandese) e Antony Den Rider. Come curatori dovevano essere Emanuela Gregori e Axinia Džurova.

 

L’eterogeneità del gruppo è dovuta alle ricerche comuni di artisti di diverse generazioni, uniti dallo stesso bisogno di “fare” arte nato tenendo conto dell’isolamento dell’uomo moderno. L’organizzazione di un simile gruppo artistico ha richiesto grande sforzo, considerando la solitudine nella quale la modernità, i suoi tempi frenetici, spinge tutti gli uomini, compresi gli artisti. Il relativo manifesto annunciava il bisogno di ognuno di far sentire la propria voce, aprendosi verso gli altri e arricchendosi attraverso lo scambio di idee e opinioni.

 

Alla fine degli anni ’80, Nunzio cambia residenza e si sposta in uno dei quartieri della periferia di Roma, densamente costruita, determinando un’atmosfera nella quale Pasolini avrebbe potuto costruire la trama di un nuovo film. La chiamerei atmosfera neo-pasoliniana, con l’apparente pigrizia del quartiere, dalle finestre filtravano i rumori dei nuovi abitanti di questi nuovi paesaggi urbani. Ora la gente del sud è lentamente sostituita dai nuovi inquilini dei paesi asiatici, africani, dell’est Europa e dei paesi slavi.

 

L’appello e l’idea del gruppo “Il Grido” è stato prodotto appunto nel nuovo studio di Nunzio, in via Casilina, il cui capo e ispiratore è stato Nunzio Bibbò. Il suo studio è a piano terra, al centro di un grande parco a forma di spirale, rifugio di una miriade di garage, e che allora aveva tanti fiori, giardini e lo spazio per bambini che, a differenza dalle nostre generazioni, vi giocavano fino a tarda sera inventando i giochi più divertenti, vivendo un’infanzia spensierata, inconsapevole di quanto era felice.

 

La grande casa/ studio di Nunzio, dotata di non tanta luce, era però un accogliente rifugio per molti viaggiatori dei nostri ambienti artistici che passavano, attraversavano e superavano l’Italia. L’interno, come è sempre stato per Nunzio, era semplice ma confortevole, anche per il pernottamento di quanti, fra i colleghi, erano rimasti senza la protezione in patria, e per organizzare incontri e discutere idee.

 

In questo grande studio Nunzio ha creato i disegni e i pastelli di bellissime figure femminili, dal sottile erotismo, com’è la poesia dell’amore. Parte di loro sono esposti nella galleria “Contrast”. Raccolti assieme alle grafiche svelano ciò che accade intorno a noi, insieme al continuo cambiamento del mondo delle idee e della vita in generale, che le terrecotte e le sculture di catrame sembrano esprimere tutto ciò chiaramente. Così come i guerrieri che cercano di difendersi invano dall’invasione, fino al midollo delle ossa, di un mondo semplificato. Esternamente sono cavalieri dotati di armatura, all’interno questi eroi sono vuoti – svuotati di contenuto, di catrame colorato e materiali di recupero raggiungendo in pieno la propria espressività mediterranea ed esaltando il dialogo e la plasticità razionalizzate della nuova esistenza.

 

Nunzio Bibbò, con i disegni e la grafica esposta nella galleria “Contrast”, ha attraversato la vita e l’arte con la sua attiva testimonianza del suo tempo e la passionalità di un instancabile ricercatore che introduce nuovi mezzi espressivi con la sua arte. Ha scoperto la forza espressiva del colore nella scultura e l’ha resa protagonista nel suo lavoro. Durante la mia ultima visita nello studio di Nunzio, scomparso il 19 ottobre 2014, nel piano inferiore dello studio i suoi guerrieri e i cavalieri apparivano come figure ieratiche ed eterni guardiani della memoria e della dignità umana. Ricordano il dialogo che perdura tra il mondo di oggi e l’espressione mitologica.

In mezzo ai suoi soggetti preferiti – paesaggi, coppie, donne e gruppi –, mi è apparso il guerriero, non quello vincente nelle battaglie, ma il guerriero del nostro millennio di materiali di rifiuto, ferro, catrame e dal corpo ferito, un guerriero impotente e senza armi, il guerriero impossibilitato a cambiare i processi del tempo. Il guerriero di Bibbò, nella sua esperienza fallimentare, invita a riflettere alla esigenza di dotarsi di un nuovo difensore, o un nuovo salvatore, ma non creato dai nostri rifiuti. Effettivamente questo è il messaggio della mostra, “Il grido” di Bibbò, che risuona dopo di lui ed è ancora attuale.

 

Con la mostra di Nunzio Bibbò nella galleria “Contrast”, si vuole ricordare questo messaggio, e cioè che la principale missione dell’arte è occuparsi del senso della vita.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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