Skip to content

Rassegna testi critici

CRITICA 5
CRITICA 6

Artista spontaneo e vivo, ma nutrito dalle più vitali esperienze attraverso uno studio severo, Nunzio Bibbò, ricco com’è di una sorgiva vena plastica, giunge nelle sue sculture, caratterizzate da pungente espressività, a penetrare i più intimi valori umani. Sì che le sue figure di vecchi e di giovanette, di uomini provati dalla fatica e di donne rassegnate sono la materializzazione di immagini che affiorano alla mente dai ricordi della gente della sua terra, la riarsa e cruda terra dell’Alto Sannio, di una gente che, immutata, in silenzio, vive la propria vita di lavoro e di sacrificio. E se ad esse si affiancano figure diverse, quelle suggerite dall’ambiente cittadino che spingono lo scultore ad impianti arditi, ai quali però sempre si accompagna un’intensa caratterizzazione psicologica, è nelle immagini vigorose della sua terra natale, animate da una fiera grandezza, che Bibbò afferma la sua originalità. Lontano da facili suggestioni e schivo di un vacuo intellettualismo, egli ritrova nel mondo natìo i valori grandi ed eterni dello spirito. E questi valori rende con un linguaggio, che pur muovendo dalla tradizione, è quanto mai attuale, vivo ed agile, un linguaggio che conferisce saldezza disegnativa, nonostante la mobilità delle luci, agli stessi studi preparatori, a matita o a penna, e che giunge, nella materia plastica, mediante un modellato sfaldato e vibratile, ed un poderoso risalto.

Ricordo una sua grande composizione scultorea, nella quale dispone come in un trionfo antico sul quale è passata l’ombra della morte i simboli della nostra alienazione, la macchina, un panno, le cose di tutti i giorni, una mela, così gessate, quasi divenute incorporee, in questa aria svuotata e di natura morta.

Dove di contro a questa febbre del sangue, a quest’impulso che apre in gesto che crea e dà forma alla materia, tutto ricade in questa possessiva ossessione, di un corpo che non è più carne; dove la carne si fa gesso, e si allontana, come su un palcoscenico di cartapesta dove la vita s’è spenta e persino lo spettacolo è finito.

Ma non tutto è qui, Bibbò avverte nella scultura una possibilità che non si rassegna a cedere, il potere di essere altro che questa impassibile testimonianza del vuoto e del silenzio che hanno occupato lo spazio della nostra esistenza, qualcosa che sia vita, in un suo estremo frammento, relitto, sembianza afferrata con patimento estremo, eppure a quel limite finale, tenuta come sospesa in una sua dimensione incorrotta. Non più nel tempo, ma dopo il tempo, la dove ogni immagine si ritrova nel suo archetipo, e per quanto dimessa, acquista una sua infinita e assoluta dignità. Ritrovamento di identità, come superamento delle barriere dell’illusione e dell’apparenza, della paura, di questa improvvisa sensazione di polvere che cade ad incarnare in immagine di morte le cose, calcolo di impossibile esistenza, come sudario su membra ormai scarnite e ridotte all’osso. Eppure Bibbò non si rassegna; se tutto ciò è parte della nostra realtà, sente nelle sue mani di scultore e nella sua immaginazione di mito, sotto la patina e la colata dei gessi, come l’effetto della lava, che ha reso eterno l’attimo, l’attimo prima, in una estrema aspirazione ad essere ancora vita.

Sotto il gesso o lungo le linee di un tronco di ulivo sente il palpito, la vibrazione, il flusso del sangue, e con mano sicura ricostruisce, l’immagine, questa presenza indistruttibile, scava seguendo le tracce invisibili, fino a ricomporre i tratti vivi di un volto e di un corpo; o lo spazio e gli oggetti della nostra quotidianità.

Non è, né pop art né arte povera, è scultura, cioè capacità di tradurre in sostanza e forma, ciò che è realta della nostra vita, in una operazione che non è falso estetismo o di pretestuoso cerebralismo, ma comunque e sempre, presenza, presenza dell’uomo e del suo voler essere adeguato alla visione del suo sogno e del suo desiderio.

Il messaggio di Bibbò per la sopravvivenza degli uomini

“Se tutto ciò è parte della nostra realtà, sente nelle sue mani di scultore e nella sua immaginazione di mito, sotto la patina e la colata dei gessi, come nell’estrema aspirazione dell’essere ancora vita. Sotto il gesso o lungo le linee di un tronco d’ulivo sente il palpito, la vibrazione, il flusso del sangue e con mano sicura ricostruisce l’immagine.”

Elio Mercuri

È proprio questo flusso sanguigno che mercuri scorge nelle sculture di Bibbò, la linfa vitale che dà concretezza sensibile alle sue opere, pregne di significati che costituiscono non un aspetto particolare della realtà, ma la sua totalità, che va ben oltre l’espressione “Ecologia”, termine che diventa riduttivo nei confronti della problematica sviluppata dalle sue opere.

Noi scorgiamo nelle sue sculture il dramma dell’uomo contemporaneo,compresso dalle soffocanti strutture della”civiltà delle macchine” che appiattisce la coscienza critica dell’individuo e che frena il suo anelito alla completa liberazione dell’asservimento alla volontà del potere prevaricatore che condizione il divenire dell’essere e la piena realizzazione della sua autocoscienza. Se inquadriamo l’opera di Bibbò nel contesto di una visione teleologica dell’uomo,potremmo scorgere gli aspetti più veri e pregnanti della sua poetica e del suo messaggio.

Franco Portone

Patrocinato  dall’Istituto arte e comunità n. 26 feb 1976 mensile

Non ho mai amato presentare artisti ai cataloghi. Mi è sempre apparso un atto superfluo e, il più delle volte, paternalistico. L’arte che vale si impone da sola, quella buona, s’intende. E il pubblico deve giudicarla da solo, con reazioni sue, anche se non fossero appropriate e specificatamente aderenti al testo critico.

Non importa: la produzione artistica deve esplicare il merito suo, connaturato, di stimolare cultura nell’uomo.

Se accetto di scrivere poche righe su Nunzio Bibbò, è perché mi appare doveroso segnalare un giovane, anche se già qualificatosi per l’insegnamento al Liceo Artistico di Brera e attualmente operante al Liceo Artistico di Benevento, che si distingue per il suo forte ancoraggio all’autenticità. Durante il mio lungo insegnamento, infatti, all’Accademia di Roma, ho sempre raccomandato ai giovani di “vedere” tutto, di catturare con l’occhio ogni nota qualificante che appare nelle produzioni dei più vari artisti, per assimilarla e “mediarla” con la propria natura, ma poi, appunto, dimenticare tutto dopo aver assunto il meglio e accingersi ad essere sé stessi tenacemente.

È stato appunto questo il cammino di Nibbò. Qua e là, nella sua produzione iniziale, si può scorgere qualche ricordo di artisti influenti, e in particolare di quel grande Arturo Martini attraverso la cui opera tutti siamo passati e che seppe drammatizzare e primitivizzare la sua scultura fino a farla apparire, nei pezzi più eloquenti, il relitto di una civiltà antica. Ma il merito di Bibbò è quello di aver operato una lettura personale dei Maestri e di essersi identificato come figlio di un antico territorio qual è l’Alto Sannio, per cui le civiltà sepolte, là, nella sua terra fatta di miserie e di vecchie schiavitù, sono tuttora viventi nei volti scavati delle donne, dei fanciulli, dei vecchi, tutti personaggi della sua tormentata scultura. Che può esser definita un significante atto di fedeltà alla pesante realtà meridionale.

Già pubblicato nel catalogo del 1981 nella mostra di Perugia al palazzo dei Priori

… così belli i nudi nel loro primigenio e disordinato vigore …

Un bronzo brunito, un albero divelto, graffito nella sensibile corteccia dalla violenza ingiuriosa degli uomini, ma ancora palpitante di vita nel segreto delle linfe, su cui approda e si erge un giovane colombo scampato all’incendio del bosco, e canta la sua protesta. E da un altro bronzo, dilacerato tra le macerie di un bombardamento atomico, si alzano due teste di vittime incolpevoli per l’estrema ribellione. Su questi parametri procede l’arte di Nunzio Bibbò, basata sui convincimenti etici che informano la sua vita. Il rapporto con la natura è fondamentale con la sua scultura: appassionato e severo, il concetto di Bibbò lega sempre all’uomo ogni forma di espressione dell’arte. Come tutti gli uomini di gusto e accorti, Bibbò sente ed assimila quei risultati della storia contemporanea che sembrano positivi al suo temperamento, ma scarta inesorabilmente quelli suggeriti dalla moda o dal mercato o indicati imperiosamente dalle sette critiche.

La sua plastica è inventiva, fantasiosa, irruente. I paesaggi che crea, come quinte di una rappresentazione – verso la quale l’estro di Bibbò è proclive – accolgono gruppi di figure jeratiche, come fissate in una atmosfera magica e in attesa. Qualcosa si spande nei volti delle figure – a volte indistinti a volte segnati dalla luce come ritratti – come una umana speranza. Corpose e altresì spirituali – ma non mistiche – le figure di Bibbò – uomini e donne – portano dentro le vene di bronzo o di argilla lo slancio vitale verso l’esistenza liberata dalle suggestioni e dagli asservimenti a ideali scaduti. Nella sua condizione di artista, Nunzio sente doppiamente questo anelito, come una nuova conquista della sua generazione che si affranca dalle pastoie dialettiche e sofismi concettuali. Il fastoso marinismo che attingeva dal vocabolario dei sinonimi delle espressioni formali e distribuiva moduli personali gelosamente custoditi e datati, è stato sommerso dalle invasioni ribelli, superato dall’implacabile corso della storia.

Nunzio Bibbò è giovane e intatto da corruzioni, l’alta dignità delle figure aggruppate in assemblee civili dimostra in lui un rispetto della personalità umana, illustra la consapevolezza della comunità nel contesto dei rapporti che sono alla base della società. Egli è originario dalla gente sannita, contadina e premurosa della terra, grata alla natura madre e dea dell’antica razza. Tra i sanniti e gli etruschi corsero indimenticati legami di alleanza in opposizione alla preponderanza delle armi di Roma, e forse questo legame si è ricongiunto in Bibbò nella cui scultura si fondono i motivi arcaici del mondo etrusco movimentato e vibrante con quelli dell’austera linea del medio evo.

La materia corrosa e sofferta delle sue sculture (specie i nudi e le figure isolate a cera perduta) è riottosa all’aggraziamento della bellezza. Ma sono così belli i nudi nel loro primigenio e disordinato vigore, che sembrano salvati per miracolo alla violenza e alla tempesta e splendono nella loro purezza e integrità.

La controprova della validità della plastica di Bibbò sta nell’opera grafica. Le figure e i paesaggi sono ricavate da un’analisi approfondita del segno che non concede agli effetti facili; e chi sa leggere nell’intrigo fitto di linee e volute, di riporti e di sovrapposizioni, capisce quanto sforzo compie uno scultore (abituato a correggere col pollice uno screzio di argilla) a premeditare e a contenere l’emozione del pennarello o della tempera, che non si possono ritoccare. Non sono più appunti a memoria, ma opere definitivamente passate alla pittura, i cui valori tonali e cromatici hanno una loro esistenza e fattura autonoma. La suggestione dei contrappunti tra la pittura e la scultura è rigorosamente controllata sotto la presidenza di uno stretto e attento senso del frugale, che sempre Nunzio Bibbò ha osservato: per vocazione e per scelta, traendone la gratificante soddisfazione di un artista di riconoscere sé stesso nelle figure e nei gesti delle opere che sono scaturite dalla sua sensibilità e dal suo pensiero, senza artifici r con umana e solare limpidezza.

“L’artista non soffre troppo della difficoltà che gli oppone la materia riluttante, e anzi la sfida, e gode del trionfo.”

Benedetto Croce

…. E’ certamente meno agevole l’uso di categorie estetiche correnti per la definizione dell’opera di uno scultore come Nunzio Bibbò. Nell’unica precedente occasione in cui ebbi ad occuparmene, ne mettevo in risalto il vitalismo, potendo ancora riferirmi esclusivamente ad un universo, visto sub specie humanitatis, del quale mi impressionava anche la dovizia della cultura visiva, vitalizzata da apporti estendentesi dalle civiltà primitive a quelle classiche, dall’espressionismo medioevale a quello contemporaneo.

È naturale che, in scultura in particolar modo, l’innato talento e la maestria acquisita risultano di non poca utilità, per giungere ad una espressione adeguata di un quantomai ricco patrimonio di immagini; specialmente quando, come frequentemente accade nell’opera di Nunzio Bibbò, si tratti di chiudere e organizzare, in giri sintatticamente ineccepibili, gruppi complessi, variamente articolati e densi di sfumature nelle configurazioni psicologiche.

Oggi, nelle grandi composizioni dei Paesaggi, in pietra o in terracotta, la medesima sapiente concertazione di masse e di volumi è armonicamente mossa in distese solennità, intervallate e intessute di movimenti larghi e lenti, rese ognora vibranti dal sapiente gioco del gradinato e, con tempi imprevedibili, sferzate da scavi profondi di occhiaie perforate.

E veramente, in questi paesaggi pietrificati e adusti, come nelle dolenti immagini di esseri umani di ogni età e condizione, sembrano rivivere, come ha scritto Giuseppe Mazzullo, “le civiltà sepolte … nella sua terra fatta di miserie e di vecchie schiavitù”.

I paesaggi ancestrali di Nunzio Bibbò e la rinascita della scultura italiana

Da quando son tornati di moda e attivanti il mestiere dello scultore, il genius loci, la manualità, la materia primaria del dare forma, moltissimi scultori hanno riscoperto il masso e tanto si industriano con raffinatezze di linguaggio per avvicinare quanto più possibile la forma della scultura al masso che fornisce la materia primaria. Dopo le esperienze delle neoavanguardie è un percorso a ritroso ritenuto selvaggio e anche vicino alla natura e alla naturalezza. Oppure, con un vero spreco d’ingegno, e con operazione tutta mentale, cercano la forma della scultura nelle figure e negli stilemi della plastica antica saccheggiando tutti i musei possibili con un manierismo estenuato e raffinato. Inseguono un’idea gelida e inerte della scultura e non si rendono conto che, in maniera “colta” arrivano al masso e non alla forma. Li muove una nostalgia della bellezza antica che sta nei ruderi e nei musei e si ritiene che solo tale nostalgia possa abitare artisticamente il presente.

Credo che da questa strada così ben coltivata che porta dalla forma al masso non verrà mai vera rinascita della scultura, tantomeno della statuaria. È possibile, invece, che una rinascita venga percorrendo la strada che porta, magari a zig zag, dal masso alla forma. L’occasione splendida di una riflessione profonda e poetica sul problema plastico così attuale ce lo offrono alcune sculture altamente formali di Nunzio Bibbò che variano, in grande e in piccolo, un motivo di concezione ed esecuzione originale ce possiamo definire come paesaggio, Paesaggio ancestrale. Ce ne sono in terra refrattaria di Spoleto cotta e in pietra di nenfro. Il masso da cui Bibbò parte non è soltanto materia che egli ama e sa potenzialmente bella, bensì un nucleo grumo primordiale che ha un sedimento d’immagine tanto nel suo io profondo quanto nella storia delle forme della scultura in Italia dai tempi più antichi. Nel masso di materia è inglobata la forma lirico-esistenziale-storica: bisogna con energia lieve, paziente, a volte con grazia e delicatezza, liberare il masso dal sovrappiù fino ad arrivare alla forma, all’immagine. Nello sviluppo secolare della scultura e della pittura in Italia, dalla tradizione italica e della Magna Grecia a noi, troveremo sempre il dosso, la collina e la montagna isolata o a catena, entrano nella scultura della forma e dell’immagine a caratterizzare la qualità dello spazio e una certa situazione ambientale.

Le sculture che Nunzio Bibbò titola “paesaggi” sono delle sculture archetipe dalle quali si generano le forme, le più ricche e varie, secondo possibilità immaginative inesauribili. Ci sia consentito un piccolo paragone di comodo. Tutti conoscono le strutture saline che crescono, cristallo su cristallo, nell’acqua, oppure l’accrescimento per espansione geometrica di solidi di certi minerali. Nunzio Bibbò segue un’immaginazione costruttiva che è guidata da una possente energia che lo porta ad occupare lo spazio, a dominarlo, a concretizzare l’energia di una volumetria che aggetta in tutte le direzioni. È questa certezza primordiale, archetipa di occupazione e tenuta umana dello spazio con materiali concreti che sempre ha fatto gli scultori veri e grandi.

Così per Nunzio Bibbò un masso è un nucleo primordiale che contiene infinite forme di una storia possibile degli uomini che muove da un archetipo ma va in molte direzioni. E per essere generatore di forme il masso di terra refrattaria o di nenfro varia col variare del punto di vista, non ripete mai la stessa figura ma sembra ruotare come un prisma dalle mille facce con aggetti di volumi e con rientranze, con pieni e con vuoti, con volumi di luce e cavità in ombra. La terra refrattaria spoletina con la cottura prende degli stupendi toni rosati e gialli di una tenerezza tutta italiana, di colori che possono essere sentiti come Greci o Italici o moderni tra Morandi e i cubisti Picasso e Braque del periodo analitico. Mi sono trovato spesso, sul fare del tramondo al Circo Massimo, di fronte ai grandi ruderi del Palatino; è incredibile come il colore che la luce solare occidua dà all’antico cotto sia vicino al colore della terra refrattaria che cuoce Nunzio Bibbò.

È il colore dei resti di un’architettura e di un materiale ma è anche un colore che alla fine si deposita nel più profondo dell’immaginazione e della memoria. Ecco, allora la qualità ancestrale di questi paesaggi italici e coi loro colori e anfratti, vette e voragini e aperture di porte e finestre che lo scultore ha ripercorso sulla materia modellando, levando, aggiungendo, facendo tagli come ferite, movimentando in modo straordinario le superfici dei volumi quasi ripercorresse coi sensi, la memoria e anche con la prefigurazione, la storia combinata della natura che ha fatto e modellato questi luoghi italiani. I Paesaggi ancestrali ricordano molti luoghi veri o dipinti o scolpiti come generazioni primordiali di paesaggio e di territorio: hanno una valenza stilistica e una valenza psichica. La loro grande novità sta nel fatto che sono immagini della presenza del passato magari dato per apocalittici frammenti come fanno i Poirier. Sono immagini di una natura-città che possiede energia vitale per crescere. Se si gira intorno ad uno qualsiasi di questi Paesaggi ancestrali si può vedere che ogni sua faccia può generare altre forme, chiude una energia che può generare altre situazioni della scultura, altri volumi in espansione nello spazio a 360°. Sono convinto che tale energia che muove dall’interno genererà altre forme e altre immagini capaci di espandersi nello spazio e di occuparlo plasticamente, umanamente, poeticamente.

Il passo primordiale era quello di passare dal masso alla forma seguendo una pulsione schietta antica-moderna che viene da una cultura italica e nello stesso tempo moderna da un archetipo sedimentato nel profondo dell’immaginazione. Quando uno scultore può scolpire, con plasticità pura e non descrittiva, un’immagine che appaqrtiene al suo io profondo come alla Natura-Storia allora può dare forma con naturalezza e verità a sculture che si possono dire moderne.

Ideologia e favola nella scultura, tutta scultura di Nunzio Bibbò

Nunzio Bibbò è uno scultore difficile. Nunzio Bibbò è uno scultore di presa immediata su chi guarda e gira intorno ad una scultura; quindi Bibbò è, anche, uno scultore facile. Nunzio Bibbò è uno scultore-monumento. Nunzio Bibbò è uno scultore di analisi, da quardare, anche, nel particolare.

Quindi è uno scultore anti-monumento. Ma la sua scultura si innalza a monumento. Nunzio Bibbò provoca, anche nella terracotta, il grigio eterno della pietra, segno universale della scultura. Ma Nunzio Bibbò provoca, anche nelle sculture pur senza diretto intervento di colore, significati e comunicazioni ottiche di colore. Ad esempio la luce del giorno o la luce della notte, colori opposti, escono dalle sculture di Nunzio Bibbò. La grande scultura determina un girotondo visivo, persino quando è superficie lineare, da bassorilievo. Nunzio Bibbò provoca circolarità, ma è, anche, linea di scultura di aperta facciata, com’è la scultura. Nunzio Bibbò è architettura. La scultura è la sorella d’arte di parto gemello dell’architettura. Non c’è scultura se non è architettura, come non c’è opera di architettura che non sia scultura. Una perla d’arte architettonica vista da lontano o dall’aereo, o vista con occhio esperto a queste aperture visive anche standole vicino, o standoci “dentro”, deve essere una scultura unitaria. La rara e sapiente magia della scultura come architettura è la forza primaria della scultura di Nunzio Bibbò. Cosa significano queste ed altre qualità di contrasto? Che Nunzio Bibbò è uno scultore difficile perché facile, misterioso perché limpido. La somma: Nunzio Bibbò è uno scultore, uomo d’arte di un’arte in cui non si può operare inganno. La scultura è, oppure cade. Certo può reggersi in piedi, ma cade nell’occhio. La scultura di Nunzio Bibbò resta nella memoria. Significa che di peso e di tondo, di altessa e di base, tutta è entrata dentro.

Per Nunzio Bibbò, alla ricerca di una definizione, si potrebbe parlare di scultura narrante. L’esempio della tenera pietra lasciata pietra, anzi come tale esaltata, innalzata a pietra-Monte per simularvi il racconto di un paese-Castello (e Bibbò ne ha più esemplari nella sua più recente fatica d’artista), equivale ad un capitolo narrativo di romanzo. Si potrebbe con queste sculture di Bibbò costruire una rappresentazione sacro-umana, ed il sacro sta per sacralità laica, cioè senso sociale. Ed insieme la scultura-paese o più pietre raccolte in una unità narrativa trasmettono vibrazioni di sottili incantesimi. Il racconto di pietra di Bibbò determina una commistione di favola e di denuncia della miseria abitativa cui spesso è costretto l’uomo: sia esso abitante delle periferie dell’entroterra sia abitante delle metropoli. Queste sculture magiche di Bibbò, ricavate da un sasso tenero dalle tinte dei cieli di piombo, sono una ricerca e una conquista di novità, per cui questo scultore va indicato come un partecipante alle ansie di ricerca che dividono oggi la produzione d’arte rituale (anche a firme illustri) da quella più gustabile e più difficoltosa nata da vocazione e da urgenza di ricerca.

Nunzio Bibbò apre un suo capitolo di lavoro che potrebbe portarlo a determinare una sua scultura partente da suggestioni e rappresentazioni al limite del popolare e scattante di una sorta di scultura anche (questo “anche” è necessario) ideologica. Questo aspetto della scultura di Bibbò va analizzato a fondo, leggendo nelle pieghe di queste pietre lavorate, ed illuminate. Si, illuminate. Nel ricordo, poiché la scultura è qualcosa che si tocca con lo sguardo ma rimane dentro come una realtà materica vivibile, quei fori-finestre trasmettono luci e vita umana, luci che si accendono e spengono cioè, vita è fatta di si e di no, di dramma anche.

Il discorso su questo essenziale momento bibboiano (l’aggettivazione del nome è meritata perché appartiene ad uno scultore di accentuata presenza nella povertà inventiva di questi tempi, che investe anche le ricerche d’avanguardia), è qui appena accennato. Ci sono risvolti da portare su un piano di chiarezza, anche polemica, che fanno di questo artista nella centralità della sua giovinezza, un polo di attesa, già positivo nei risultati in atto.

La scultura moderna che fa quasi da spartiacque tra l’uso di materie consistenti nel senso di solidità corposa (marmo, terracotta. bronzo, legno), e le soluzioni al limite del casuale o della provocazione materica, in fatto di fragibilità della materia e infrangibilità dell’idea rappresentata a questa scultura è l’ultima, con uso di cartoni, di Umberto Boccioni. Da allora, sull’artista del successivo mezzo secolo e più, pesano condizionamenti che pongono interrogativi sulla verità della scultura. È anche scultura visiva l’incrocio impalpabile di fasci di luce proiettati nello spazio. Quindi rimane il coraggio di rientrare nei grandi mezzi di tradizione ma con la necessità di provocare energie nuove e sensibilizzanti per le nuove generazioni educate a ritmi diversi, non solo musicali. Appare da questre pietre-narranti di Nunzio Bibbò il coraggio di una figuratività di scultura che va oltre l’occasionale, per fermarsi in risultato di ricerca e di capacità poetica. A parte la solidità del mestiere, che è componente necessaria quando si affrontano operazioni di ricerca da documentare come operazioni di sapienza d’artista ed evitare le cadute nel falsario del moderno, Nunzio Bibbò mostra una capacità d’artista multipla ed unitaria, sul filo del fascino ed insieme di quella carica scompositiva che è l’indicazione della ricerca. Alcune sue figure di terracotta, un paesaggio ricavato dalla terracotta invece che dalla pietra denunciano queste situazioni, in positivo, che si vanno sviluppando nella scultura di Nunzio Bibbò. Sul quale il discorso critico, insieme al consenso visivo dei goditori di scultura, è davvero appena apertp, anche se si tratta di un artista già di successo. È una prima conclusione a vantaggio di un artista, questo saperlo ancora inesplorato e chiuso nel suo potenziale Castello espressivo. Come una delle sue Pietre narranti.

Nunzio Bibbò contempla due tendenze essenziali con la sua scultura: che in pari tempo si assesta nell’astratto, in quanto vive nel pronunciamento del non finito, nell’insieme di un unico pensiero che è forma e in una sola accoglienza che è volume; ed è figurativa, chè, comunque, la sua prevalenza, nel riguardo al vero, è costruita come sui brandelli di una carne e sulla rappresentazione di una ricerca dosata dell’espressione, del detto e del non detto, del fatto e non costruito, dell’intimo che sfugge ma che senti nella delicatezza dei momenti, e della fisionomia che accentua la sofferenza della materia che sembra sfuggire ai tocchi, ai rilievi, alle trasfigurazioni. Eppure la scultura di Bibbò è tutta una totale trasfigurazione, una resistenza al linguaggio, ma sempre in un suo linguaggio, in un’accoglienza storica della fisicità della forma. D’altro canto Bibbò rivela ancora una caratteristica per un suo complesso che affonda nell’esistenza dell’ovulo, e quindi della rotondità, del viso, del corpo intero, dei volumi che si fondono nel buio e nella luce, nell’esuberanza tormentata della figura. Ed è apparente, in quest’analisi, il dato essenziale della certezza tra l’unificazione e modulazione dell’iconografia, giacchè, mentre per un verso c’è esuberanza di tormento proprio per quello sfuggire alla perfezione dei tratti e dei gesti, per l’altro v’è l’alta poesia del non finito, che non fa disperdere il nostro umanesimo di sempre, come dell’uomo dello scavo nel frammento di una vita remota, e di una presenza nel tempo, con l’origine e il divenire. Questo è un raggiungimento elevato nel pensiero della cultura di Bibbò; un raggiungimento che vive d’asperienza e d’esuberanza, d’antica perennità e di presenza nell’attualità.

Giungo nella casa-studio di Bibbò nel primo pomeriggio, stà modellando diverse crete, forse per una mostra da organizzare a Benevento. Per conversare interrompe il lavoro, so che gli dispiace ma non lo fa notare.

Ci prendiamo un caffè, parliamo un po’ di noi, come sempre; controllo se il registratore funziona e, senza preamboli, gli chiedo: quali sono state le tematiche che hanno caratterizato la prima fase della tua attività creativa, fra il finire degli anni sessanta e l’inzio del decennio successivo?

In quel periodo modellavo molti gruppi, li chiamavo “assemblee”, a volte li inserivo nel paesaggio.

A quel tempo realizzavo anche ritratti e figure singole, ma il coinvolgimento maggiore lo raggiungevo nella creazione di questi gruppi legati: le assemblee, la famiglia, la coppia …; forse risentivo di una sorta di isolamento, avvertivo il bisogno della comunità e della solidarietà così forte nelle mie terre d’origine.

Queste “Assemblee”, quindi, non intendevano parlare delle lotte e dei movimenti aggregativi cresciuti in Italia sul finire degli anni sessanta?

Certamente valori di comunità erano anche nei movimenti sociali di quegli anni, l’arte, però, che deve sapere cogliere e anche anticipare quello che matura nella società e nelle persone, non deve cercare di raccontarlo, farne cronaca pittorica o scultorea, semmai coglierne l’essenza.

Tu insegnavi a Benevento ma vivevi a Napoli, città nella quale hai trascorso il periodo della formazione. Il bisogno di autonomia e di conoscenza ti portarono a girare l’Italia e ad accentuare le tue condizioni di isolamento.

Nel 1972 andai a vivere a Milano: avevo ricevuto un incarico d’insegnamento all’Accademia di Brera, in quel periodo diretta da Purificato. Accetai il trasferimento perché Milano, assieme a Torino, era una delle poche città italiane che potessero offrire ad un artista possibilità di crescita. Vissi a Milano solo per un anno perché ebbi la sensazione di trovarmi in un ambiente freddo che non riuscii ad accettare; mi trasferii ancora e venni a Roma ad insegnare al Liceo Artistico. Trovai un ambiente artistico più coinvolgente. Ero venuto a Roma per ampliare le mie conoscenze, entrai in contatto con la generazione di artisti a me più vicina, ma le strade della ricerca ci condussero presto su terreni diversi. Di fatto ho continuato a lavorare in modo isolato e autonomo sul terreno della ricerca.

Perché questo isolamento artistico e personale?

In questi ultimi venti-trent’anni la ricerca nel campo della figurazione è stata sottovalutata: i critici e le Istituzioni hanno valorizzato, quasi esclusivamente, le cosiddette avanguardie. Gli stessi Maestri della figurazione si sono rinchiusi nei loro studi senza tentare di tenere aperto un confronto dialettico per favorire l’incontro fra diversi linguaggi e contrastare questa linea unidirezionale che le mode e le correnti di pensiero, di critici e direttori delle Istituzioni, imponevano alla cultura artistica pubblica.

Di fatto, gli artisti più giovani che hanno ritenuto di proseguire la loro ricerca con linguaggi neo-figurativi hanno lavorato e lavorano, ma isolati.

Quale contributo ha offerto l’ambiente e la città di Roma alla tua opera?

Le figure che comincio a modellare a Roma sono consumate e rendono bene la suggestione che i tronconi di statue esposte alle intemperie, con quella loro aria di decadenza, provocarono in me.

Queste figure consumate diventano centrali nella tua ricerca per molto tempo?

In qualche modo non le ho mai abbandonate, diventano linguaggio specifico della mia opera, un tratto che contribuisce, assieme ad altri, a rendere personale il mio lavoro. Trasporto nel mio lavoro come la sensazione di trovarmi di fronte allo scheletro residuo di una grande cultura. Si tratta di sensazioni istintive, che già nel descriverle mi sembra di ridurre e banalizzare.

D’altra parte mi ritengo uno scultore istintivo piuttosto che un artista di corrente o teso alla programmazione di una ricerca.

Nel corso degli anni successivi si vengono consolidando alcune tematiche che si riveleranno ricorrenti nel tuo lavoro: la ricerca sul mito, il paesaggio della memoria, gli amanti. Mi sembrano questi i tre grandi filoni tematici della tua opera che, prima della metà degli anni settanta, non erano emersi con chiarezza.

Ritengo che il fare scultura sia cercare di trasmettere le proprie sensazioni di vita quotidiana. Da sempre porto con me la presenza del mito e la perenne emozione che gli amanti personificano. Si tratta della mia vita, delle mie angosce, così come il desiderio di appartenere al gruppo e, quindi, alle “Assemblee”. Gli amanti, l’amore, lo spiazzamento, la perdita degli amori, la riconquista di nuovi amori portano alla creazione di quelle forme.

Cosa trovi di contemporaneo in quelle figure di amanti, che tuttora scolpisci, così plastiche, ma fortemente incise?

L’amore è così fondamentale e capace di incidere nella vita di ognuno di noi che, finchè toccherò la creta, modellerò una coppia. Ogni nuova coppia che modelletò sarà diversa sul piano della forma, la vita arricchisce e la forma ne trae le conseguenze, diventa più macchinosa, segnata, forse più efficace.

Il mito. Nella tua scultura è, secondo me, il tentativo di trasmettere la sensazione di una presenza indefinita, di figura incombente, quasi si divinità.

Penso che ci sia un legame fra queste tue sensazioni e il mio pensiero. Per me è, comunque, una sorta di fuga, di nostalgia e di ritrovamento di una presenza imperitura. C’è il bisogno di evocare i fatti culturali grandiosi, le grandi religiosità che l’arte testimonia, un modo essenziale di interpretare la vita dell’antichità che mi affascina.

Pensare al mito, agli archetipi, è un visionare per la storia che mi è necessario, è una esigenza che mi propone la vita attuale, capace di svuotare, di privarci di qualunque fede (non obbligatoriamente religiosa). Se ci soffermiamo a pensare vedi che non c’è più contemplazione, non si fa poesia, non c’è raccoglimento, neanche il silenzio per dipingere un quadro. Non c’è più il tempo, la voglia, le condizioni per visitare un amico.

Io ripenso al passato perché è il presente, con questi suoi limiti esistenziali, che mi interessa e preoccupa.

Quali sono state le riflessioni che ti portarono alla realizzazione della scultura di paesaggio?

Ci arrivai senza accorgermene, quando successe per la prima volta provai la sensazione di avere prodotto un’opera molto personale, di avere raggiunto un risultato che rafforzava la mia autonomia espressiva. In qualche modo, il paesaggio segna un momento di sintesi della mia ricerca. Il lavorare la pietra di nenfro ha favorito questo approdo. È una pietra etrusca che si trova nelle campagne di Tarquinia, è pietra mitica che gli etruschi usavano per le strutture tombali, ci facevano anche le architetture. È una pietra tenerissima, si lavora facilmente, poi, all’aria aperta, diventa durissima. A me piace, perché, per colore e matericità, si avvicina a questi miei paesaggi mitologici. La pietra, in effetti, è la materia base per realizzare vera scultura.

Mi parli della creta e della terracotta?

La creta è il materiale più importante del mio lavoro, sono uno scultore di modellazione, tocco e modello l’argilla dai primi anni della mia infanzia.

L’argilla è materiale di passaggio per la tua scultura?

Per me è, quasi sempre, la materia definitiva delle mie sculture e, anche quando lavoro la pietra, tengo presente gli effetti che la modellazione dell’argilla consente.

Cerco di valorizzare al massimo la materia che uso, se ci fai caso, in alcune mie crete c’è grande attenzione a non fare notare il gesto della modellazione, del lavoro della mano; è il desiderio di esaltare la purezza della materia e la creta lo consente solo se entri in rapporto profondo con essa.

Quante crete hai usato?

Tantissime: quelle dei ceramisti di Tarquinia che ti offrono impasti capaci di creare ceramiche molto rosate, con venature marroni, che rimandano ai colori dei vasi etruschi; quelle umbre, diverse tra di loro, capaci, spesso, di portarti a ceramiche chiare, ecc.

Poche sono le tue sculture in legno, nessuna in ferro…

I materiali vengono scelti in base alla sensibilità e ai tempi di creazione che i singoli artisti hanno.

Io non uso il legno perché non mi permette di realizzare la scultura con l’immediatezza che consente la creta. I tempi lunghi di lavorazione mi tolgono la possibilità di passare, con immediatezza, dalla fase di ideazione a quella creativa. Se non riesco a realizzare l’opera attraverso questa fase rapida mi resta una sensazione di perdita di autenticità.

Il ferro non mi permette la manipolazione, la possibilità di creare quelle atmosfere che sono caratteristiche della mia scultura. Per me il ferro è un materiale fine a se stesso. Io sono legato alla mediterraneità, al mito del paesaggio, … il ferro non mi permette di trasferire queste sensazioni nella scultura.

La creta, con le proprietà che ha, il colore, i tagli, le superfici, non si può sostiture con alcuna altra materia.

Il bronzo, invece?

Il bronzo è un materiale che possiede storicità e, quindi, è legato alla mia scultura che aspira a forti riferimenti storici.

Se tu dovessi scegliere sulla base, solamente, di valutazioni artistiche, quale materia useresti?

La creta. Finirei l’opera in terracotta. Se avessi mezzi a disposizione, grandi forni, spazi per lavorarla, non avrei dubbi.

Qual’è il limite del bronzo?

L’indispensabile fase di passaggio fra l’opera scolpita o modellata e quella che esce dalla fusione. Anche quando il lavoro intermedio e di fusione viene realizzato alla perfezione, la scultura perde in vivezza. Quando scolpisco la creta compio un gesto diretto, quasi spirituale, sul bronzo non posso agire direttamente.

La tua attività di scultore è accompagnata, da molto tempo, da quella di incisore. Come sei arrivato all’incisione?

Ho scoperto l’incisione a Roma, nel 1975-’76, frequentando una stamperia in via Germanico, di un artista libanese, Italo Mussa. Assieme a Mussa lavorava un uomo sensibilissimo all’arte incisoria, Michele Ciavarella. Ero molto interessato al segno così come l’incisione o l’acido lo trasformano e trasferiscono. Un interesse, quindi, legato alla teoria del segno e alla ricerca ad essa collegata, il bisogno di scoprire effetti chiaroscurali nuovi, con strumenti nuovi per il mio lavoro.

Hai lavorato anche lastre litografiche?

Pochissime, realizzo quasi solamente incisioni, perchè mi consentono di realizzare strutture luministiche che corrispondono meglio agli effetti della scultura, delle masse, dei vuoti e dei pieni.

La puntasecca è la tecnica attraverso la quale aggiungi forza e originalità alla tua opera d’arte?

Credo di riuscire, attraverso la puntasecca, a raggiungere il livello più alto della mia opera incisoria, mi consente di creare atmosfere e effetti chiaroscurali che sono parte essenziale della mia scultura.

Trovi difficoltà particolari nel lavoro di incisore?

La puntasecca mi consente di lavorare sulla lastra in modo scultoreo, come quando opero sulla pietra, in rapporto diretto con la superficie materica. L’acquaforte, invece, non consente l’incisione diretta, tutto è demandato all’acido, quindi i problemi che possono insorgere dipendono da questa sostanziale imponderabilità dell’azione incisoria.

Il colore e la pittura, invece, quando li hai scoperti?

Cominciai a lavorare con l’acquarello, la tempera e, poi, l’olio, verso la fine degli anni settanta, 1977-’78.

Dipingo all’interno dello studio, rielaboro gli schizzi fatti all’aria aperta, ci fantastico sopra. Come pittore devo essere considerato un autodidatta, almeno per quanto riguarda il rapporto con il colore.

Non usi l’acrilico?

No, l’acrilico mi offre colori che non sento, preferisco l’olio che trovo più sensuale e incisivo.

Perché hai sentito il bisogno di dipingere?

Faccio pittura perché queste forme colorate esprimono, in modo diretto, le varianti cromatiche della mia ricerca. I miei quadri possono essere considerati chiavi di lettura aggiuntive della mia scultura. Quando lavoro con il colore dipingo delle forme, non sono pittore di atmosfere ma di forme scultoree.

C’è stato un periodo nel quale, attraverso la pittura, realizzavi forme astratte, risale all’inizio degli anni ottanta.

È la pittura degli anni 1983-’85. In effetti tendevo ad annullare le forme conosciute per ricercare strutturazioni primordiali; giungo successivamente, e di nuovo, alla ricomposizione della forma, arricchita da questa fase di ricerca ed esperienza pittorica.

Anche i colori e i timbri cromatici che caratterizzano quella fase sono diversi da quelli attuali, sembrano tesi a produrre notturni; è possibile?

Il notturno, con le ombre, con i neri, in qualche modo porta alla dissolvenza della forma. In quel periodo meditavo sulla forma, avvertivo il bisogno di materializzare la mia ricerca in modo che le opere non marcassero derivazioni dirette dal lavoro di altri. Si tratta, pertanto, di una ricerca alla quale i notturni fornivano le condizioni della sua realizzazione.

Nella tua pittura più recente stendi il colore con pennellate che, ampie o fitte, restano nette nella superficie e per colori distinti.

Sono particolari di un linguaggio pittorico emerso spontaneamente nel lavoro. Questa moltitudine di pennellate da grande movimento alla mia pittura e alle forme che propone, come tracce di scalpello sulla pietra.

Per Nunzio è tempo di tornare a “toccare la creta”, quella materia che, come nessuna, sa raccontare la sua vita, le sue emozioni, i suoi desideri. Sospendiamo il nostro discorrere e, dopo avere gustato un altro caffè, lo lascio che modella una donna vestita di un tessuto d’argilla.

Dagli anni settanta ad oggi “il vero” è tornato di moda

Bibbò è uno scultore che ama la monumentalità, il piacere di stupire con presenze inquietanti e maestose, quasi antichi reperti archeologici di strutture architettoniche o figure. La plastica delle sue opere è un non-finito che allude alla forma, la plasma e la modella, tracciando superfici lisce o percorse da segni o colpi di spatola. vibranti nei panneggi o scavate dalla forza compositiva dello scultore, le opere di Bibbò si nutrono dell’antica de austera tradizione greca e latina per approdare alla cultura della modernità con graffiti e collages.

Se l’arte è il linguaggio della memoria e dell’immaginazione, del mito e dell’utopia, nell’opera di Nunzio Bibbò si può vedere in modo palpabile come il centro segreto, più profondo e nient’affatto inconsapevole della ricerca sia posto (o sposato) tutto sull’essenza del ricordo: si vuol dire, con questo, che l’atto e lo sforzo di immaginazione creatrice, per motivi esistenziali che hanno radice nella storia dell’artista, ripiegano sul passato anche più lontano, fino al mito, onde recuperare il senso del presente e, immanente, non conclamato (quindi senza retorica alcuna), per cogliere l’ideale che scaturisce dalla riflessione formale sulle fonti e sulle origini della sua esperienza culturale; quasi lo slancio da lontano per gettarsi nella drammatica mancanza di senso del presente storico e dissentirne in un silenzio pieno di rimprovero. È l’indice del bisogno dell’impegno etico-sociale, di quella proiezione progettuale che si può soltanto evincere dalla relazione intima che le strutture formali hanno col mondo dei significati dell’artista: insomma, con un futuro auspicabile degli esseri umani, con l’utopia.

Essenza del ricordo, ho detto, perché del ricordo, ciò che unifica i suoi diversi contenuti, ciò che permane, non è l’episodio, il fatto o la narrazione (un racconto), ma la sua sostanziale natura, il suo valore più universale e significante: essenza, nel senso aristotelico di “ciò per cui una cosa è quel che è”: natura, dunque, e genere-specie della cosa, cioè, qui, nel ricordo. In termini di analisi della psiche, quest’essenza è l’archetipo. L’essenza del ricordo è quando occorre ed è necessario per comprendere il presente e per compiere quel semplice balzo possibile in futuro lontano. Essenza, natura e specie dell’evento passato e suo archetipo (anche Micacchi, 1988) individuale e collettivo, che pone in essere quegli stati dai quali le forme si producono, si generano, attraverso una conversione analogica dell’immagine, cioè in una metafora dell’oggetto mentale, il ricordo. Una creazione, che è un rigurgito dalle sacche della mente. E vedremo come si esplicita questa dimensione soggettiva, mentale e culturale, in dimensione formale.

Consideriamo ora le priorità di questa conversione analogica dell’essenza del ricordo nella forma. L’arte figurativa (e per l’artista, qui la figuratività sta nel fatto che “l’opera produce comunque un’immagine di forme”) (Bibbò, dic. 2000) è impegnata in un atto mimetico, che si esplicita in molti modi e nell’opera di Nunzio Bibbò la mimesi è diretta a cogliere, non il reale fenomenico, ma l’essenza del reale (pur tuttavia icastico, di immagini forti di un’evidenza raffigurativa), come tale contrapposta all’accidente, all’accadere molteplice: la memoria coincide così, non con il reale, ma con la sua assenza archetipa. Ciò vuol dire che il tema, il contenuto, non è e non può essere narrazione, né un atto descrittivo: l’intero spessore del senso dell’opera, al di là dei singoli contenuti, si esplicita in una composizione di essenzialità, da cogliere nella cosa, nelle singole molteplici cose del vivere umano: lo stare insieme, l’amore, il luogo del vivere.

Quindi mimesi, non del reale oggettivo, ma dell’immagine-ricordo, del ricordo che s’è fatto immagine, ricondotto alla sua fase archetipica. L’artista è così posto “fuori dai limiti del tempo reale”, con tutto il “trauma” di questo spiazzamento in un altro tempo del tutto irreale (astorico)” (Bibbò, cit.).

Ancestrale, non a caso, è stata chiamata dall’artista una serie di oggetti; ma il concetto vale per tutta l’opera, l’attraversa per intero. Per questo non vale qui l’opposizione che Lukas ebbe a portare, a proposito dell’analisi del romanzo dell’800 (La teoria del romanzo, 1920), tra narrare e descrivere, mettendo a confronto Zola (Nanà) e Tolstoj (Anna Karenina) sui due episodi della corsa di cavalli e della scena del teatro. E neppure vale sottolineare contenuti “popolari”, perché invece è di stirpi e di popoli che si parla (l’Etruria e il Sannio), che sono o diventano universali nell’immaginazione dell’artista, e sono quindi presenti ancora oggi, pur nella disgregazione sociale e politica a cui siamo costretti: essenze di popoli, dunque; e forse una nostalgia di ciò che scompare e ci imbarbarisce. Si scende così alle soglie, ideali, immaginate, di un ricordo che è insieme sapere e cultura, ma anche realtà visiva ed esperienza vissuta, di quella che si chiama arte dell’Italia antica, che nasce negli agglomerati a struttura protostorica, a cinque multiple (Manduria, Spinazzola, ecc.) e nelle città d’altura del Lazio e che costituisce le tradizioni campano-sannite e dei territori falisci, la cultura villanoviana dell’Etruria meridionale, dove furono manipolate le figure fittili dei secoli IX-VIII a.C., prime testimonianze della plastica italica.

Nunzio Bibbò ha grandi maestri alle spalle, diretti e ideali, ma di tutti, come si può vedere, coglie solo quanto a lui occorre, per tracciare il suo percorso: di Medardo Rosso la luce e la velocità compositiva e un’impressionistica negazione del definito; di Brancusi un plasticismo, come vedremo costruito su pure leggi compositive e la ricerca di forme “generative”, consonanti con le sue essenze; di Giacometti le frantumazioni corrodenti e i rapporti spazio-masse, che Bibbò (e anche su questo torneremo) riformula con una grande complessità; di Moore l’arcaismo e la complementarietà di spazio e forme. Ed i maestri diretti, poi: Greco, con le sue terracotte etrusche, e Perez e Mastroianni (di cui ama il chiaroscuro e la dinamica disarticolata delle strutture), Mazzacurati.

Formalmente l’“essenza” si coglie in quanto forma compositiva e in quanto forma plastica, nelle quali si compendiano tutti gli altri caratteri dell’opera di questo artista.

La “forma compositiva” ha qui sempre una duplice struttura, quella dell’archetipo, di cui s’è detto, e quella del frammento, che gli viene dai maestri, con una sua funzione scompositiva (Tallarico, 1990), cioè quella di una figurazione consumata (Bibbò, 1993), sottoposta alla decadenza del tempo, quasi “scheletro residuo di una grande cultura” (ivi), che è simbolo, emblema archetipico, essenza della nostra, attuale.

L’essenzialità della “forma plastica” fa subito dell’oggetto un “frammento” della storia più remota, che ci conduce e ci accompagna fino ad oggi, ed una “carica scompositiva” (Selvaggi, 1988), frammento della natura. Qui si vede il nesso stretto delle due strutture della forma compositiva: l’essenzialità dell’archetipo e la frammentazione formale, nella quale storia e natura si intersecano fino a fare della natura la fonte antica, storica e archetipica, del dramma presente. Storia e natura, non narrate, non descritte, ma colte e catturate nel loro essere originario. Si è detto “natura-città” (Micacchi, cit.), “natura-castello” (Selvaggi, cit.), ma anche natura-figura, natura-umanità: non c’è dunque “ambiente”, non si tratta di “paesaggio”, ne c’è “personaggio” di un qualche “racconto”.

Plasticità essenziale, dunque, mai decorativa, perché l’impulso emozionale che la porta ad essere non ha necessità di filtri, è lontana da plasticità ornamentali, scenografiche. Quindi la materia, i materiali, sono funzioni dell’idea e pertanto “necessari” alla costruzione plastica, che deve essere su materia fragile, per venire velocemente lavorata: lavorata coi sensi e con la sensazione della transitorietà del ricordo. Per questo le tenerissime pietre di nenfro e di macco, la creta e l’argilla, le ceramiche per terrecotte e al limite il bronzo, per il suo significato arcaico.

Una lavorazione che aggetta e si ritrae, che genera pieno e vuoto e, dunque, luce ed ombra, volume e superficie, spazio e percorso temporale, e che sceglie la materia in relazione anche al colore che essa ha di per sé o che assume con la cottura.

Ma qual è la sequenza generativa di queste proprietà del linguaggio scultoreo dell’artista?

Si può con sicurezza dire che sull’opera aleggia una prima, fondamentale, dimensione della spazialità, che fa da contenitore del senso e alla quale il momento emozionale dell’artista si appoggia per prendere le mosse: è lo spazio del vissuto-esistenziale che genera il bisogno della volumetria scultorea ed ha la sua radice nella ricerca di un’espressione della memoria; è in questo genere di spazio semantico che l’emozione viene raggiunta, per restare poi “fissata” nella forma: “raggiunta”, cioè, nel toccare l’essenza, nel sondare il tempo, fino alla radice del mito. È lo spazio dei significati archetipici, che spinge all’indagine del tempo e si pietrifica nelle modulazioni delle forme, nelle articolazioni di una sintassi scultorea. “Emozione” qui non sta per ripiegamento intimo, non significa autobiografia tout court, anche se poi è su questo “implicito” che si misura l’autenticità; emozione, generata dal valore ieratico, quindi sacrale, grave e solenne, della sua società-natura (le “assemblee” o gli agglomerati “ancestrali”) e della figura-natura (gli amanti, le figure femminili).

Quella prima dimensione, psicologica, emozionale, dello spazio genera il volume come tensione espressiva di essenze: la plasticità nasce da un bisogno di scendere al cuore della visione del tempo ed “usa” la materia. Materia, in quanto “comunicazione ottica” (Selvaggi, cit.), che porta con sé il colore delle terre di cui è fatta. Ed il colore di quella materia, nei suoi timbri notturni, ha in sé la forza della dissoluzione della forma (Bibbò, cit.), e nei suoi dolorosi gialli-rosati, la forza della “luce del ricordo” (Selvaggi, cit.). Colore-luce, generati dalla materia, che a sua volta genera una seconda, altrettanto fondamentale dimensione della spazialità: lo spazio, non come contenitore di un accadimento, ma come necessità formale dell’essenza; non lo spazio creatore di quelle volumetrie che appartengono invece all’altra dimensione della spazialità, quella semantica, ma uno spazio ripiegato, riflesso, per così dire rivolto agli specifici archetipi del ricordo e che si fa e si consolida in “volume specifico”: uno spazio sintattico che impone un’osservazione “a tutto tondo” evidenziando la spazialità dell’immagine ed esplicitando la temporalità sintattica del percorso formale dell’opera.

Si potrebbe dire che lo spazio del senso generatore delle volumetrie si rapporta allo spazio prodotto nella materia (con il gioco del pieno-vuoto, di luce-ombra, di volume-superficie) come un contorno alla massa, come un alone d’aria al pianeta. Quest’altro spazio, riflesso, che non crea l’immagine ma guarda al ricordo, spazio senza enfasi, spazio architettonico, non monumentale, spazio che ora guarda alla dolorosa dinamica psichica che coglie il passare del ricordo: spazio dell’emozione. Dinamismo, abbiamo detto, che non è “futuristico”, non ricerca di “simultaneità”, ma è tutto impressionistico, proiettato nel cogliere una “en plein air” della memoria, spinto a cogliere il suo carattere transeunte, come un tramonto di Monet. Di qui l’impressione di un non-finito, di un non-detto (Maiorino), che altro non è che modo di cogliere l’archetipo. Il dato dinamico dell’opera ha origine tutto nella possibilità di dare forma allo scorrere e al trapassare del ricordo. La natura e la figura-natura diventano in questi termini forme che incombono dal passato, presenze rese indefinite dal tempo che le incrosta.

La spazialità vibrante ma non ampollosa fa di Nunzio Bibbò uno scultore per un verso “analitico” (Selvaggi, cit.), ma per contro proteso alla “sintesi” dell’essenziale.

L’interesse per la teoria del segno (Bibbò, cit.), che si scopre, per esempio, nello stretto legame tra le sculture e le incisioni, più che con altro (acquarelli, tempere, olii), mostra la consapevolezza con cui l’artista ha compreso come i codici degli effetti (chiaroscurali e luministici) nella strutturazione delle masse sono le determinanti sintattiche (nelle loro connessioni temporali) dei valori simbolici del significato.

C’è un’etica sociale che soggiace, immanente, all’opera, e non ha “gesto” estroverso e non può avere retorica: il “gesto” è introspettivo e, in questo senso, passa sostanzialmente al di sopra dell’esperienza manieristica e barocca, di quella cultura “partenopea” che è fatta di eloquenza, per scendere invece indietro, nell’allusione al primitivo (Martini), al frammento di una antichissima civiltà italica.

Premetto, questo breve scritto sorge mentre sto strutturando il catalogo, nasce da una necessità personale, quella di testimoniare e chiarire a me stesso la passione con la quale seguo da anni un artista che si apparta, che vive la sua marginalità, dal circuito dell’arte promossa e patinata, senza farne drammi, senza ritenere di essere vittima di un sistema (anche se avrebbe ragione di urlare).

Intendiamoci, non scriverò di forma, di storia dell’arte o di qualsiasi altro aspetto dell’opera di Nunzio che lascio doverosamente a chi ha più mezzi di me (fra l’altro, come ho già detto al mio amico, di fronte all’opera d’arte sono un “ruminante”, digerisco le novità con lentezza).

Sento solo il bisogno di dire ciò che mi pare emergere da una frequentazione insistita, non costretta, ma necessitata dal valore delle verità che le sue sculture – ma anche certa pittura e certe incisioni –, fanno emergere. E, in particolare, di un aspetto che mi sembra non emergere dalla lettura dei testi critici sulla sua opera.

Se osserviamo e indaghiamo con attenzione i soggetti della scultura di Bibbò, possiamo giungere a molte e diverse conclusioni, tutto dipende dalla nostra posizione interiore, dalla nostra sensibilità, dalla disponibilità a lasciarci permeare dall’opera d’arte, da questa specifica opera d’arte.

L’opera d’arte, e, osando, direi più d’ogni altra la scultura, produce, attraverso chi ne gode intensamente, tante e diverse verità, quanti sono coloro che appunto ne sanno gedere. Così anche la scultura di Bibbò parla di noi ogni qualvolta ci mettiamo nella condizione di non sottovalutarne il peso creativo, andando oltre la prima lettura visiva.

Ovviamente le sue sculture parlano di lui, del suo vissuto. Ma c’è, nella sua opera, un segmento che maggiormente ne isola la funzione autoassegnatasi, seppure inconsapevolmente?

Bibbò, ma anche tutti coloro che hanno scritto del suo lavoro, dice che i suoi soggetti sono: Amanti, Coppie, Assemblee, Miti, Paesaggi.

Quasi mai viene citato – nè dall’artista, ne dai suoi critici – un soggetto: il Guerriero. Perché quest’apparente dimenticanza? Forse perché il guerriero è ritenuto una delle diverse forme attraverso le quali si manifesta il mito? Oppure non lo si prende in considerazione perché, apparentemente, in contraddizione con la chiave di lettura attraverso la quale possono essere lette le sculture che s’innervano nella materializzazione degli altri soggetti?

E, ancora. Se pensiamo ai soggetti elencati poche righe fa, ci accorgiamo che trattano della rappresentazione di alcune condizioni dell’esperienza umana o della cultura che ci tramanda la storia, e che vedono Bibbò partecipe, seppure in modo originale e personale, di un’esperienza collettiva: l’amore, il formarsi dei gruppi sociali, il luogo e la forma della memoria interiore.

E il guerriero? Ne possiamo parlare in questa stessa chiave?

Non credo. E, allora? Perché compare nella sua produzione? E se il guerriero fosse Bibbò?

A me nessuna opera di Nunzio, mi parla di lui più di quanto lo riesca a fare la lettura interiormente disponibile – da parte nostra – dei suoi guerrieri.

Il guerriero attraversa quasi ogni epoca delle sue ricerche, solo negli anni della selezione dei linguaggi e delle forme altrui il guerriero non lo troviamo. Emerge, nel suo lavoro d’artista, quando si materializza la sua forma espressiva (i professionisti direbbero la “sua cifra”), come ad indicare una presenza oramai matura, la raggiunta consapevolezza inconsapevole di una funzione guadagnata nel lavoro di scavo dentro sé. Tutto questo passaggio lungo, dalla fase di assimilazione e selezione del visto nei Maestri alla maturazione del proprio linguaggio, della propria forma espressiva, si palesa contemporaneamente all’apparizione del guerriero/Bibbò.

Da quel momento lo troviamo in ogni momento della sua continua ricerca sulle diverse materie, nella sperimentazione delle diverse tecniche espressive. Per questo il guerriero/Bibbò è lì a registrare i passi in avanti, le difficoltà, i mutamenti della società che costringono l’artista a trovare nuovi registri sui quali aggiornare la sua offerta di forme scultoree adeguate a un nuovo sentire, non completamente conscio, almeno fino a quando la manipolazione della creta non lo renderà chiaro.

È lui stesso – in guerriero/Bibbò – a sottoporsi alla martoriante esperienza della ricerca, come lo scienziato/ricercatore che usa se stesso come cavia.

Sto esagerando? Può essere, ma continuate ancora un po’ a seguire il senso strano di questo mio ragionamento.

Perché il guerriero creato da Nunzio mi attrae, da sempre, con grande intensità? Quale forza interiore mi tramette? Parla di me – capitemi, parla di chi lo guarda? – o è Bibbò che mi si manifesta nella forma più chiara e leggibile?

Ricordo Il guerrioro morente, appoggiato ad una colonna antica, a quella sua forma non drammatica, a quel sentirsi coerente e soddisfatto di aver fatto quanto i valori ereditati gli indicavano.

Poi la testa di Guerriero, quasi un teschio che guarda all’interlocutore presunto – ognuno di noi – con forza, convinzione; quasi a dire che è cambiato il contesto nel quale è costretto ad agire ma continua a combattere con coerenza.

E, ancora. Guerriero con la lancia, con il pugnale, con lo scudo, in posizione di riposo o pronto a rispondere ad un’offesa; ma anche a cavallo, con l’amata a fianco che lo saluta.

E, ogni volta, la creta o il bronzo, l’olio o la puntasecca, a ribadire la sua testimonianza, la sua coerenza ad ideali di vita, la consapevolezza di sapere usare “le armi” che gli sono state trasmesse.

Poi, a sorpresa, il Guerriero degli anni duemila, di catrame, ferri, materiali di recupero abbandonati dagli uomini, e il comparire del rosso vermiglio su un corpo squartato.

Bibbò non usa quei materiali per orecchiare certa ricerca d’arte della seconda parte del secondo novecento, o per ingraziarsi certa critica disponibile. Se sceglie un certo materiale per lui inusuale, non organico al sentire dello scultore degli anni settanta-novanta, è perché ne sente il bisogno. Quale? E perché lo usa prevalentemente, aggiungo, con maggiore efficacia proprio per il suo essere Guerriero?

Perché, perdonatemi se insisto, continua a sperimentare sul proprio corpo una nuova condizione umana. La società gli risulta sempre più complessa, ma anche come fosse in atto un allontanamento dai principi, dalle culture attraverso le quali il guerriero/Bibbò s’è formato. Per questo il suo corpo diventa drammatico, il suo sguardo è quello di un imponente impotente, le sue armi sono inermi, pura rappresentazione scheletrica del passato. Per questo muta la materia, come a dar vita, con materiali di scarto, ad un guerriero che non vede come potere incidere sull’oggi.

Per questo, affermo che si tratta del guerriero/Bibbò.

E, non illudetevi, si tratta di una denucia che vi riguarda. Il guerriero/Bibbò chiama ognuno di noi ad un atto di riflessione.

“Mentre i quadri sono immagini staccate dal nostro mondo, e abitano uno spazio tutto loro in cui possiamo guardare ma non entrare, le sculture devono assolvere alla doppia funzione di appartenere al nostro spazio vitale come coinquilini e simultaneamente di rifletterlo dandone un’interpretazione.”

Rudolf Arnheim

Nel suo saggio Sculpture, Rudolf Arnheim ha messo in evidenza la natura “stranamente duplice” degli oggetti d’arte: “Da una parte, gli edifici sono una delle varie specie di oggetti fisici, come gli alberi, le montagne o l’acqua. Dall’altra, essi sono immagini del mondo di cui fanno parte. Un’analoga doppia realtà è propria anche delle opere di scultura. Anch’esse sono non soltanto immagini ma oggetti tra gli oggetti, e questo crea un’intimità spontanea con le cose di natura, e con i corpi umani in particolare”. Nello stesso testo, lo studioso sottolinea anche l’assenza, nella scultura, del “tratto essenziale della vita, vale a dire del movimento”. Tuttavia, argomenta Arnheim, questa immobilità senza tempo non va interpretata come un inconveniente. Al pari della pittura, la plastica estrae dalla sfera dell’esperienza frammenti raggelati di vissuto, apprezzati per la loro capacità di illuminazione e per la perdurante significanza, mette cioè in collegamento passato e futuro attraverso una “pregnante presenza e ci fornisce una serie di immagini stabili attraverso le quali possiamo orientarci nello spazio mentre navighiamo seguendo la corrente di eventi proteiformi”.

Le sculture di Nunzio Bibbò non sfuggono a queste regole generali.

Egli muove dal lessico di una tradizione tenacemente fondata su una modellazione che non rinuncia alla sperimentazione, anche la più audace, per rielaborare di continuo con invenzioni personali, i grandi temi di sempre: l’uomo, il mito, la natura, la storia.

C’è in lui una continuità, una coerenza, quasi un’inconscia esigenza di confermare, evidenziare e far coincidere, nella molteplicità delle soluzioni raggiunte, le costanti ragioni culturali del suo lavoro e certe latenti suggestioni di limpida matrice classica.

Le sue sono raffigurazioni che sembrano raccogliere e recuperare un senso riposto, una rete di disposizioni emotive atte a tradursi, con la mediazione del mestiere, in possibilità di linguaggio.

Mestiere e tradizione, per quanto strettamente funzionali alla rappresentazione delle più intime tensioni esistenziali insite nella natura umana, sono dunque due degli elementi che sostanziano la ricerca di Bibbò, uno scultore che senza eludere la trattazione dell’oggi affronta e analizza l’uomo contemporaneo includendolo simbolicamente in una dimensione atemporale che si esprime, come ha puntualmente osservato il filosofo Alberto Gianquinto, attraverso un atto mimetico diretto a cogliere non già il reale fenomenico ma l’essenza di esso, ovvero la sedimentazione dell’esperienza attinta dal ricordo.

Si tratta di un artista che ha quindi anteposto all’operazione manuale una severa ricognizione tesa al reperimento di quel particolare denominatore comune in grado di esprimere le più riposte “costanti umane” che prescindono da qualsivoglia coordinata di tempo e di luogo.

Da questo processo di scavo deriva la forza spiccatamente evocativa e la stessa attualità delle opere di Bibbò, sculture che, ricercatamente, pur senza concedere molto alla narratività, soddisfano una precisa esigenza descrittiva portata su un piano intersoggettivo.

Date queste premesse, l’utilizzo e l’iniziale predilezione per la creta, e per estensione del bronzo, non sono andati profilandosi unicamente come adesione ad una antica tradizione tecnica ereditata dal luogo d’origine dell’artista, Castelvetere nel Sannio, ma come logica e ponderata elezione del materiale più consono alle proprie, particolari esigenze espressive. L’evocazione indefinità dell’antico consente inoltre di mantenere questi manufatti lontani da ogni caduta di natura vernacolare, dai rischi sempre in agguato, della declinazione popolaresca. E questo quasi a dispetto di una comunicazione che in Bibbò sembra assumere talvolta il connotato della confessione intima, sussurata, filtrata da un controllo instabile che sovente cede al gesto istintivo e viscerale, figlio dell’intuizione, che lo affranca dai più ingombranti precetti accademici e gli consente di smentire i ritmi cadenzati e i misurati equilibri compositivi che talvolta si manifestano con architettonica saldezza.

L’argilla, infatti, sensibilissima ad ogni minima pressione del pollice, quindi alla luce, con la sua arrendevole disponibilità al pentimento dell’artista, al ritocco e all’esecuzione aperta alle mille variazioni in corso d’opera, unitamente alle potenzialità simbolico-evocative insite nella materia stessa, si concede naturalmente, contrariamente alla pietra, alla rapida, istintiva gestualità e ai mutamenti umorali dell’artefice.

Bibbò sfrutta ed esalta al massimo grado le proprietà della creta, la lavora indifferentemente per addizione e sottrazione di materia senza leziosità, senza celarne, anzi quasi evidenziandone, come per una sorta di intimo e segreto rispetto, la reazione al taglio netto del filo, alla decisa e morbida pressione delle dita, al secco e drammaticamente graffiante colpo di stecca.

Qui, nel lampeggiare della fronte alta e tesa di una Dafne superbamente eretta su un piedistallo, nel guizzo di un’ Europa rapita, nell’intimità eterna di una coppia di amanti o ancora nelle figure femminili dai fianchi ampi e colmi di passione per la vita, si ritroverà sempre un senso di malinconica nostalgia per un passato mitico irrimediabilmente perduto. Sono queste figure solide, dai profili possenti e regali, che quasi a dispetto del registro alto del mito riescono a conciliare sagome potenti e drammatiche tensioni che rimandano a un’arcaica civiltà contadina, all’età dell’oro.

Da qualche tempo, mantenendosi fedele ai temi affrontati, l’attenzione dell’artista si è spostata sulle possibilità espressive concesse da un materiale lontano dalla tradizione plastica: il catrame. E se è vero che le sculture hanno la stessa natura dei loro materiali e traggono da essi reali connotazioni simboliche, è facile dedurre come con questo ciclo di opere Bibbò abbia dato sfogo a tutto il suo disincantato pessimismo interpretando il proprio tempo alla luce di un giudizio severo e inappellabile che quasi lo ha portato a smentire la solare mediterraneità, della sua passata ricerca.

Inquietanti e spettrali, queste statue si presentano allo sguardo minacciose e seducenti, quasi degli angeli caduti, creature infernali e dannate che hanno perso il favore divino. Sono ruderi antropomorfi dal portamento fiero e austero, suggestivi residui di una dignità che fu altissima, bozzoli monumentali da cui l’afflato vitale è svanito lasciando lacerazioni profonde e vuote cavità. “Sono l’immagine dell’uomo di oggi svuotato della sua essenza, dei suoi ideali, della sua vitalità”, dirà l’autore.

Tra le fonti dello scultore, al pari di Medardo Rosso, dal quale l’artista sembra aver attinto la moderna modulazione della luce e la fresca, virtuosa compendiarietà esecutiva, si possono ritrovare altre figure fondamentali quali Martini, Marini, Manzù, Greco ma anche, l’antica scultura medio-italica e quella etrusco-romana, segnatamente quella che precede l’approdo del canone classico e succede alla sua crisi. Sono questi i modelli che hanno ispirato il vivace colorismo e la maestosa, ieratica monumentalità dei Paesaggi, delle coppie di Amanti, dei guerrieri. Una monumentalità spiccatamente icastica che risulta unicamente dipendere dalla solenne eleganza delle posture e dalla forza d’impianto e d’impatto della sintesi plastica raggiunta piuttosto che dall’evidenza dimensionale di queste sculture che poco o nulla concedono alla definizione del dettaglio contestualizzante.

Tracciati da solchi profondi e impenetrabili sottosquadri entro cui la luce, quasi intimorita, non irrompe, questi lavori impongono al fruitore un movimento fisico, intorno al manufatto, e uno puramente mentale, per inquadrare l’opera in uno spazio e in un tempo definiti.

Ma proprio attraverso l’inevitabile fallimento di un simile approccio, nella sofisticata omissione di qualsivoglia traccia rivelatrice, queste sculture riescono a comunicare la centralità di senso di certe umane, eterne incognite, quali l’incertezza del proprio destino o l’insolubile mistero che avvolge e cela l’essenza profonda dell’esistenza; quesiti che da sempre accompagnano il cammino e la transitorietà dell’uomo.

Conversazione con Nunzio Bibbò

A cura di Andrea Romoli Barberini

Lo studio dello scultore Nunzio Bibbò si trova a Roma, sulla via Casilina, in una di quelle periferie in cui gli schiamazzi delle bande di ragazzini si combinano col ronzio di scooter modificati e rumori domestici scivolati in strada dalle finestre di tanti palazzoni dormitorio.

Qui è ancora possibile respirare un po’ dell’atmosfera quieta e drammaticamente pigra che tanto piaceva a Pasolini anche se oggi le facce e le voci che si incrociano da queste parti sono diverse da quelle di ieri: meno dialetti meridionali e tratti somatici mediterranei, più lingue slave, asiatiche, africane.

Rispetto a trent’anni fa anche il paesaggio è cambiato: sparite le selve di antenne cresciute come erbacce sui tetti, i palazzi sembrano ora infestati dai bubboni bianchi e cuspidati delle paraboliche.

Nel ventre di uno di questi edifici di cui si fatica a trovare l’ingresso per chi vi arriva a piedi, percorso il dedalo di strade e stradine che portano a cantine e magazzini, si raggiunge un enorme terrapieno. Gli inquilini del palazzone lo hanno trasformato in un delizioso giardino con aiuole, alberi, panchine e altalene per far giocare i loro cuccioli al sicuro dalle insidie del mondo che sta fuori.

Qui lavora Nunzio Bibbò, l’artista che viene dalla terra, come lui ama ripetere, e che forse proprio per le sue origini non ha voluto rinunciare alla frescura di un pergolato di uva fragola che avvolge tutt’intorno la sua grande casa-studio in un verde abbraccio.

La sua accoglienza è calda e sincera, da autentico uomo del sud.

 

All’inizio della strada c’è un cartello con su scritto: “Nunzio Bibbò, scultore”. Sembra quasi un modo polemico per rivendicare il proprio diritto di esistere…

“Oggi, per come si sono messe le cose nel mondo dell’arte, il senso di quel cartello può sembrare davvero polemico. In realtà l’ho messo quando, dallo studio che avevo in piazza Vittorio mi sono trasferito qui. Più che altro volevo segnalare la mia presenza e facilitare l’arrivo degli amici e dei collezionisti che mi venivano a trovare”.

E come si sono messe le cose nel mondo dell’arte?

“Non bene. C’è sempre meno interesse da parte dei media. L’artista, intendo l’artista visivo, è sempre più emarginato. Se chiedi a un ventenne cosa intende con la parola artista, ti risponderà: cantante, attore. D’altro canto questo è il messaggio che passa dalle televisioni, dalle radio, dai giornali. È il solito ricatto per cui ciò che viene escluso dai media viene ad un tempo escluso dalla società. Ma non tutti i mali vengono per nuocere e paradossalmente, per alcuni artisti, e io sono tra questi, questa emarginazione è diventata in qualche modo un argomento di ricerca su cui riflettere e lavorare”.

In che modo?

“Attraverso l’analisi di certi fenomeni epocali come appunto l’impatto dei media sulla società, sulla gente. La superficialità stessa dei messaggi veicolati è per me di grande interesse. Basta fare questa riflessione preliminare per avere delle coordinate di indagine di grande utilità. E bada bene che queste osservazioni sono tanto più importanti quanto più si possono tradurre in forme. Voglio dire che se oggi la figura che modello ha una solidità plastica ambigua, perché si vede che dentro è assolutamente vuota, questa variante formale mi è venuta traducendo plasticamente certe suggestioni televisive e i loro effetti sulla società. In altri termini, l’arte può svilupparsi ed evolversi anche nutrendosi dell’indifferenza che le viene tributata”.

Ovviamente queste riflessioni preliminari incidono anche sulla scelta dei materiali per la realizzazione dell’opera.

“Certamente sì”.

Dopo tanto lavoro con l’argilla, il bronzo, la pietra per quale via sei arrivato al catrame?

“Posso dirti che ho sentito l’esigenza di uscire da un certo tipo di prassi, da una certa modellazione della scultura. Ho usato per decenni i materiali tradizionali poi, direi quasi per una necessità di contenuto, mi sono messo alla ricerca di nuove soluzioni. Quando parlo di contenuto mi riferisco al fatto che noi sostanzialmente viviamo in un mondo di catrame e quindi mi è sembrato interessante utilizzare questo materiale che è diventato un po’ il simbolo dei nostri tempi anche se di fatto esiste da sempre. Rispetto all’uomo, il catrame oggi è un po’ come l’argilla ieri. Poi ha influito molto, come ti dicevo, l’esigenza di rappresentare lo svuotamento dell’individuo e della figura. Dico figura perché in queste opere permane una chiara valenza iconica anche se forse certe definizioni critiche come figurazione o astrazione sono in questo caso fuori luogo perché le mie sculture di catrame in realtà sono fantasmi”.

Questa scelta mi pare in linea con certi tuoi lavori realizzati negli anni Settanta con stracci, plastiche e altri materiali…

“E’ vero. Anche l’approccio progettuale ha molti punti in comune con quelle esperienze. Qualcuno ha interpretato ingenuamente questo modo di operare basato sulla sperimentazione come un momento di minore importanza, ma bisogna fare attenzione ed evitare i facili equivoci: lavorare con il catrame, o con gli stracci come facevo trent’anni fa non significa affatto tradire la modellazione. Voglio dire che con questi materiali, apparentemente extrascultorei, non cambia granché. Anziché modellare l’argilla, ora, con tecniche diverse, plasmo altre materie. Qual è il problema? Del catrame mi affascina la flessibilità, la resistenza, il colore, la sensibilità alla luce della sua superficie e la possibilità di intervenirci con il fuoco. L’ho scoperto quasi per caso dopo aver iniziato a modellare delle figure in argilla che costruivo rapidamente quasi accartocciando delle sfoglie di creta. L’argilla però non resisteva al proprio peso e si afflosciava sempre su se stessa senza permettermi di lavorare come avrei voluto su certe cavità, su certi movimenti della luce interni all’opera. Quindi ho dovuto cercare delle valide alternative”.

Nelle ultime sculture c’è però un più massiccio uso del colore.

“il colore è una componente da sempre presente nel mio lavoro, anche se in forma di varietà chiaroscurale. Ora, invece, al di là dei giochi plastici che mi servono per la modulazione della luce, mi dedico molto anche alla superficie dell’opera, non soltanto al volume. Il colore mi serve per accentuare certi effetti. Poi devo dire che il catrame assorbe bene il colore, gli concede una sua fantasia spontanea”.

Da un punto di vista tecnico quali sono le difficoltà che presenta la modellazione del catrame?

“Ce ne sono parecchie. Prima ho accennato a qualche vantaggio, ma in realtà non si tratta di un materiale facile. Sai, a volte è la stessa difficoltà dei materiali, la naturale resistenza che la materia oppone alla mano di chi la lavora che salva l’opera dai pericoli della leziosità, del troppo finito, della maniera.

Il catrame comunque mi serve come amalgama finale che contiene in se diversi materiali come le armature di ferro, gli stracci, gli oggetti trovati e altri elementi di recupero”.

In alcuni lavori, penso ad esempio al Ratto di Europa, il profilo dell’opera è come smentito da alcuni fili metallici che possono sembrare funzionali all’equilibrio e alla stabilità…

“No, non è di questo che si tratta. Senza quei fili la scultura manterrebbe intatto il suo equilibrio. Mi sono accorto che questi fili piuttosto che imprigionare il movimento, come credevo inizialmente, in realtà lo espandono. È stata una sorpresa anche per me. Si tratta di un fatto compositivo, di volume e spazio.

Qualcosa di simile l’avevi realizzata già alla metà degli anni Settanta con la serie delle “Gabbie”.

“È vero, almeno da un punto di vista compositivo ci sono diverse affinità con le Gabbie. C’è da dire però che in quel caso il riferimento al mito era inesistente.

Pur nella varietà delle indagini affrontate, nell’arco di tutta la tua attività ti sei mantenuto fedele ad alcuni temi quali il guerriero, la donna, il paesaggio ancestrale. Quali significati attribuisci a questi soggetti?

“Ci sono dei temi che ti restano dentro anche per tutta la vita perché conservano una loro irrisolvibilità e una varietà di significati in continua evoluzione che varia a seconda delle situazioni, degli umori. È difficile da spiegare. L’importante è non cadere nella ripetizione: si può ripetere un tema all’infinito, pensa a Morandi, ma guai a ripetere la soluzione. Il guerriero che realizzo non ha nulla a che fare con la guerra. È il guerriero del tempo, che combatte per la conoscenza. È lo scopritore del tempo, quindi incarna l’intelligenza di un uomo consapevole dei propri limiti, della propria fine ma che nonostante tutto non rinuncia a migliorarsi. Ecco, il mio guerriero vuole essere questo. In qualche caso lo rappresento con forme più angosciose e sofferte, altre volte sembra più minaccioso. Diverso è il significato che attribuisco alla donna, alla femminilità. Per me è il pilastro, l’indispensabile premessa dell’uomo. La donna è la madre, la madre terra. E anche quando faccio i paesaggi penso alla donna perché la terra è la madre di tutto. Tra questi temi come vedi ci sono dei nessi strettissimi e per niente casuali.

La monumentalità, che in queste opere sembra avere il valore del retaggio consapevole di una cultura classica riletta in forme fortemente trasfigurate, resta una delle caratteristiche più evidenti delle tue sculture…

“Può darsi, dipende da quale tipo di monumentalità si intende. Tu fai riferimento alla cultura classica e, parlando del mio lavoro, non sbagli. Credo però che sia un fatto legato alla memoria, all’amore per la mia terra, la storia, le tradizioni, che poi sono la mia storia, le mie tradizioni, la mia identità culturale. Questi lavori non sono estranei alla volontà di aggrapparmi e ricollegarmi idealmente al sogno antico della classicità, una classicità a cui sono molto legato perché mi permette di leggere il moderno e guardare l’oggi con occhio vigile e sguardo attento. In una parola: criticamente”.

Gli amanti di ferro e fuoco di Bibbò il “guerriero”

È difficile trovare nel panorama contemporaneo uno scultore le cui opere sprigionino come quelle di Nunzio Bibbò una forza così possente ed esprimano la paura, l’angoscia, il terrore che vanno impadronendosi della coscienza collettiva in un momento storico così carico di incognite minacciose e di presagi apocalittici. Le figure delle sue sculture di grandi e medie dimensioni, fatte di ferro, catrame, oggetti di recupero e interventi con il colore, sembrano uscite da un campo di battaglia in una pausa delle ostilità, o da una officina infernale. Si direbbe che egli novello homo faber abbia messo il suo simbolico mondo espressivo a ferro e fuoco, come i “ signori della guerra” vanno facendo con il mondo reale. Le sue sculture ricordano i catrami e le combustioni di Burri, il grande novatore dell’arte italiana. Era stato un buon profeta il Maestro umbro nel prevedere, con il suo ciclo,Annotarsi, il ripetersi del goyesco sonno della ragione che genera mostri. Il mondo odierno è popolato di mostri non meno che il periodo più oscuro del Medioevo. I Futuristi proclamavano la guerra “igiene del mondo”, ma la guerra di è trasformata nella “peste del mondo”, superata come portatrice di catastrofi soltanto dal terrorismo. Nunzio Bibbò si connota invece per un espressionismo violento, in cui il ferro rigurgita “di sangue”, pur se di sicura esperienza sul piano formale. Oltre che Burri, le sue sculture evocano le combustioni lignee, i ritratti di antichi romani o etruschi, le figure terrorizzanti di Marino Marini, che era anche un eccellente pittore, nonché i grotteschi mostri polimaterici del compianto Enrico Baj.

Ma in contrasto con questo mondo bellicoso e cruento, Nunzio Bibbò realizza opere in bronzo, terracotta policroma e pietre di nenfro ispirate a paesaggi ancestrali, torri e monumenti, coppie di amanti, dame e cavalieri, guerrieri romantici, personaggi mitici, evocanti un universo metastorico sempre perduto ma sempre rinascente, specie quando la realtà torna ad assumere il suo aspetto terrificante.

Costanzo Costantini

“I guerrieri del tempo”         

Del maestro Nunzio Bibbò

La mostra del “Vittoriano” vuole presentare il lavoro svolto in questi ultimi dieci anni e, precisamente, le sculture di catrame.Dice il maestro Nunzio bibbò:”Perche il catrame?Perche materiale dei nostri giorni, materiale deleterio, provvisorio, piatto; e comunque, nel mio caso, utile al contenuto del mio tema: “Il guerriero”. Ogni essere umano è guerriero della propria esistenza. Il continuo lottare con la quotidianità e il portarla al termine con dignità.Il genere umano che ha inventato la storie è guerriero fortissimo contro l’ignoto del tempo, guerriero di previsioni di un futuro lontano, ignoto e minaccioso.Questa è l’idea, il contenuto di questo mio lavoro. Spero che il lavoro della scultura possa bene trasmettere questo messaggio.

Pa. Pel.

Sculture di Nunzio Bibbò nel complesso del Vittoriano

Nelle sue opere in creta, bronzo e pietra le forme, in assenza di contorni definiti, nonostante la solidità e la prepotente fisicità e capacità espressiva sembrano perdere la propria autonomia nello spazio per aprirsi alla mobilità dell’aria, nei “catrami”, invece alla maniera del collage e dell’accostamento di materiale (catrame,ferro), vivacità delle moderne esperienze artistiche perché al tempo stesso libera da condizionamenti estetici e soggiacente ad un rigoroso modulo di impaginazione e di scelta dei “materiali” e che si fa apprezzare come una delle proposte più interessanti e nuove che sia dato di vedere nel panorama dell’arte contemporanea. Andrea Romoli Barberini, curatore della mostra, scrive che Nunzio Bibbò “muove dal lessico di una tradizione tenacemente fondata su una modellazione che non rinuncia alla sperimentazione, anche la più audace, per rielaborare di continuo con invenzioni personali, i grandi temi di sempre: l’uomo,il mito, la natura, la storia”.

Vittorio Esposito

Bibbò al Ramo d’oro

Nunzio Bibbò è infatti uno scultore/pittore che porta con se, costantemente, il tratto dell’artista che ricerca in solitudine.Scolpisce anche quando crea i suoi dipinti a tecnica mista, popolati da corpi legati ed abbracciati, simili ad ombre che si muovono nella luce, mentre nelle sculture – bronzo e terrecotte policrome – le forme, le figure con i loro volti dai lineamenti indefiniti emergono lentamente dalla materia (“Esodo”), pronti farsi inghiottire di nuovo.Mescolando realtà e mito l’artista si confronta con l’umo contemporaneo, lo analizza a fondo e lo colloca simbolicamente in una dimensione senza tempo, dove può metterne in luce l’essenza.

Tiziana Tricarico

I catrami di Nunzio Bibbò

“Anche se forse – come dice lui stesso del suo lavoro – certe definizioni critiche come figurazione o astrazione sono in questo caso fuori luogo, perche le mie sculture di catrame in realtà sono fantasmi”

 

 

L’artista sannita esporrà le sue opere,dal 22 gennaio prossimo, presso le sale della Rocca dei Rettori

Di Enza Annunziato

Dal complesso del Vittoriano di Roma alla Rocca dei Rettori di Benevento, Nunzio Bibbò sannita DOC propone la sua mostra di scultura dal titolo “Terrecotte e catrami” per il giorno 22 gennaio, che resterà aperta fino al 22 febbraio. La mostra è stata organizzata e voluta dall’ente provincia assessorato della cultura.
Nunzio Bibbo’ nato a Castelvetere in Val Fortore, vive e lavora a Roma, conserva nelle sue creazioni il suo vissuto Sannita ‘riscrivendolo’ però nell’immediatezza del presente. 
Già il titolo sottintende il suo percorso artistico che parte da un momento tradizionale per evolvere in forme e colori della modernità. Questo avviene anche nella materia che l’artista utilizza per realizzare le sue opere.
Dopo aver utilizzato per tantissimo tempo materiali classici come l’argilla, ha sentito il bisogno di un rinnovamento anche nell’esteriorità materica delle creazioni.Il catrame è il nuovo approdo che affascina la fantasia di Bibbo’ perché lo sente flessuoso, sensibile, duttile, resistente. 
Ha insomma, tutte le caratteristiche intime dell’artista sannita, quelle cioè di essere ancorato alla realtà senza però trascurare l’immaginazione geniale del prodotto, assorbendo gli stimoli della quotidianità per sovrapporli alla memoria dei luoghi nativi.
All’inizio della sua carriera Nunzio Bibbo’  aveva lasciato poco spazio al colore, giocando soprattutto sulle sfumature chiaroscurali. Oggi invece il cromatismo anche forte e stridente gli permette di conferire incisività al significato artistico dell’opera.
Tra i suoi temi più importanti ritroviamo la famiglia e il guerriero.Sembrerebbe una contraddizione ma Nunzio Bibbo’ precisa subito che il ‘suo’ guerriero non ama la guerra ma anzi è in lotta per l’affermazione dell’amore. E questo infatti il tema dominante delle opere di Bibbo’.
L’amore è il fondamento stesso della vita sia quando vi è la tristezza dell’abbandono, lo struggimento della perdita, sia quando c’è il trionfo della vicinanza, della poesia mistica dell’adorazione. 
Per Nunzio Bibbo’ la scultura diventa regola di vita, in quanto gli permette di estrinsecare i suoi sentimenti senza essere frainteso ma… solo interpretato artisticamente. E nel gioco di rimandi, di ritrovamenti sensibili, di archetipi silenti, il mito della creazione è fonte di ispirazione virtuosa, magicamente legata alla terra come frammento di ricordi e nostalgia, e proteso in avanti, quale imperscrutabile ricerca del domani. 
I fili che ritroviamo, quasi immancabili dei suoi ‘guerrieri’ non rappresentano ‘gabbie’ di chiusura, ma solo legami stretti con il presente. 
Nunzio Bibbo’ artista attento e sensibile non si lascia catturare da facili tentazioni della moda, ma cerca, attraverso un linguaggio scultore, pulito e incisivo, di interpretare il caos della civiltà moderna provando a ritagliarsi un spazio di sogno e di desiderio fantastico.
Dignità e forza per vivere liberamente in arte.

Disegni e grafica nella Galleria “Kontrast”

Nella Galleria “Contrast” sono esposti disegni e incisioni del famoso scultore italiano Nunzio Bibbò. Colui che nel 1980 viene rappresentato nel Salotto dell’Unione dei pittori bulgari in via Scipka 6 e nel 2011, nella Galleria dell’Arte Straniera, con mostre retrospettive di scultura, disegni e grafica. Non a caso le sue sculture fanno parte dell’esposizione del panorama artistico del XX secolo alla Galleria Nazionale di Arte di Sofia (Kvadrat 500).

Chi è effettivamente Nunzio Bibbò scomparso tre anni fa (2014), uomo di figura robusta e bassa, sempre col suo cappello non indifferente, personalità emozionale e espansiva, forte interesse per il sociale, legatosi alla Bulgaria, ai suoi tanti amici e scegliendo la bulgara Ekaterina Bibbò come consorte per gli ultimi decenni della sua vita?

Affascinato da Arturo Martini e Medardo Rosso, Nunzio pensava che senza misticismo non si possa fare arte, perché gli si toglierebbe carisma. Il famoso critico italiano Cesare Zavattini, in occasione della sua mostra ad Arezzo nel 1979, scrive: “…la sua stilistica però non è fatta schematicamente: perché sotto quei linguaggi si scopre la fiamma, l’urlo di Gemito , che è poi il drammatico appello che viene dalle popolazioni meridionali delle quali Bibbò è indubbiamente uno dei più alti interpreti di oggi” Nunzio è allievo di Emilio Greco – rappresentante del classicismo nella scultura moderna, di Augusto Perez, di Umberto Mastroianni, con il suo astrattismo e di Marino Mazzacurati, e la sua figurazione.

L’esordio artistico di Nunzio Bibbò in Bulgaria inizia nel 1980, a seguito della mostra del pittore Ennio Calabria, noto con la sua espressività e impegno sociale. Nunzio porta con se la brezza mediterranea italiana, il mondo della tradizione contadina, ricca di solidarietà, e gli anacronismi tipici del suo luogo di origine (Castelvetere, nell’Alto Sannio, in provincia di Benevento). Un luogo famoso con i suoi “terracottari” – artigiani della tradizione della creta, il suo materiale preferito. Nunzio fa parte di un’atmosfera, di un tempo senza tempo, tipico di questo luogo che diventa mitico dopo averlo demitizzato. Portatore della tradizione della sua terra, portava i segni di quel mondo arcaico, affascinante per la marcata autenticità. I suoi paesaggi architettonici, nei dipinti e nella grafica, con case e mura di pietra, alternate agli stretti vicoli, erano portatori di una memoria storica, ancestrale. Lo stesso si può dire dei suoi paesaggi di pietra, che fanno tutt’uno con la natura e hanno qualcosa di Primordiale. In questo modo la forma effimera e densa s’intreccia con la certezza di un modo autentico e originale, e lo stupore mistico della creazione rammenta la sua supremazia, dimenticata dall’uomo esaltato dal progresso tecnologico. Questi paesaggi che nascono dalla terra come testimonianza archetipica, pieni di vita , frutto dell’autentica modellazione della storia. Lo stesso sentimento trasmettono i gruppi riuniti nell’affrontare le avversità nella vita. Se guardiamo i personaggi disegnati e scolpiti, sono bassi, cupi, con teste rotonde occhi grandi e labbra sottili, il loro archetipo antico non ha niente in comune con i popoli antichi romani, greci, normanni o nessun altro popolo antico che ha attraversato quel territorio. Tutto questo ci indirizza verso le antiche figure italiche mentre la serie dei dipinti e grafiche di figure femminili in vesti semplici ricordano le madonne contemporanee con il suo segno e spiritualità.

Durante gli anni ‘70 – ‘80 Nunzio alloggiava in un seminterrato a piazza Vittorio, vicino a stazione Termini e alla chiesa di Santa Maria Maggiore. Lo spazio ricordava le antiche catacombe e, in fondo poteva viverci e lavorare. I corridoi stretti colmi di terracotta, frammenti di scultura e i materiali di tutti i tipi, necessari per lavorare, sparsi dappertutto; l’unico spazio per vivere era composto da un letto in ferro, un piccolo tavolino e pochi accessori per preparare un the o un caffè. Si poteva sempre assaporare una buona pizza in una delle tante trattorie e pizzerie nei dintorni della piazza. Proprio qui, in questa catacomba nascono alcuni dei più interessanti idee e progetti realizzati da Nunzio, per esempio le porte della Cattedrale di Reggio Calabria realizzate più tardi (1988) e parte dei disegni e delle grafiche presentati della Galleria “Contrast” a Sofia.

Negli ultimi anni Nunzio ha dedicato parte del suo tempo allo sviluppo e alla realizzazione del progetto del gruppo artistico “Il Grido”. L’idea è nata per aggregare artisti di diverse generazioni (ignorando le differenze generazionali) uniti dal bisogno di essere ascoltati dalla società, cercando punti comuni nella ricerca artistica. Il gruppo era composto dal pittore Giovanni Battista Cuocolo, gli scultori Nino Pollini, Leandro Lottici e Aulo Pedicini e il fotografo Nico Marziali. Dovevano unirsi anche gli artisti bulgari Liubomir Dobrev, Stanislav Pamukschiev, Ivo Hadjimischev (fotografo), Vladimir Schukisch , gli artisti olandesi Marko Markov (suo amico bulgaro di adozione olandese) e Antony Den Rider. Come curatori dovevano essere Emanuela Gregori e Axinia Džurova.

L’eterogeneità del gruppo è dovuta alle ricerche comuni di artisti di diverse generazioni, uniti dallo stesso bisogno di “fare” arte nato tenendo conto dell’isolamento dell’uomo moderno. L’organizzazione di un simile gruppo artistico ha richiesto grande sforzo, considerando la solitudine nella quale la modernità, i suoi tempi frenetici, spinge tutti gli uomini, compresi gli artisti. Il relativo manifesto annunciava il bisogno di ognuno di far sentire la propria voce, aprendosi verso gli altri e arricchendosi attraverso lo scambio di idee e opinioni.

Alla fine degli anni ’80, Nunzio cambia residenza e si sposta in uno dei quartieri della periferia di Roma, densamente costruita, determinando un’atmosfera nella quale Pasolini avrebbe potuto costruire la trama di un nuovo film. La chiamerei atmosfera neo-pasoliniana, con l’apparente pigrizia del quartiere, dalle finestre filtravano i rumori dei nuovi abitanti di questi nuovi paesaggi urbani. Ora la gente del sud è lentamente sostituita dai nuovi inquilini dei paesi asiatici, africani, dell’est Europa e dei paesi slavi.

L’appello e l’idea del gruppo “Il Grido” è stato prodotto appunto nel nuovo studio di Nunzio, in via Casilina, il cui capo e ispiratore è stato Nunzio Bibbò. Il suo studio è a piano terra, al centro di un grande parco a forma di spirale, rifugio di una miriade di garage, e che allora aveva tanti fiori, giardini e lo spazio per bambini che, a differenza dalle nostre generazioni, vi giocavano fino a tarda sera inventando i giochi più divertenti, vivendo un’infanzia spensierata, inconsapevole di quanto era felice.

La grande casa/ studio di Nunzio, dotata di non tanta luce, era però un accogliente rifugio per molti viaggiatori dei nostri ambienti artistici che passavano, attraversavano e superavano l’Italia. L’interno, come è sempre stato per Nunzio, era semplice ma confortevole, anche per il pernottamento di quanti, fra i colleghi, erano rimasti senza la protezione in patria, e per organizzare incontri e discutere idee.

In questo grande studio Nunzio ha creato i disegni e i pastelli di bellissime figure femminili, dal sottile erotismo, com’è la poesia dell’amore. Parte di loro sono esposti nella galleria “Contrast”. Raccolti assieme alle grafiche svelano ciò che accade intorno a noi, insieme al continuo cambiamento del mondo delle idee e della vita in generale, che le terrecotte e le sculture di catrame sembrano esprimere tutto ciò chiaramente. Così come i guerrieri che cercano di difendersi invano dall’invasione, fino al midollo delle ossa, di un mondo semplificato. Esternamente sono cavalieri dotati di armatura, all’interno questi eroi sono vuoti – svuotati di contenuto, di catrame colorato e materiali di recupero raggiungendo in pieno la propria espressività mediterranea ed esaltando il dialogo e la plasticità razionalizzate della nuova esistenza.

Nunzio Bibbò, con i disegni e la grafica esposta nella galleria “Contrast”, ha attraversato la vita e l’arte con la sua attiva testimonianza del suo tempo e la passionalità di un instancabile ricercatore che introduce nuovi mezzi espressivi con la sua arte. Ha scoperto la forza espressiva del colore nella scultura e l’ha resa protagonista nel suo lavoro. Durante la mia ultima visita nello studio di Nunzio, scomparso il 19 ottobre 2014, nel piano inferiore dello studio i suoi guerrieri e i cavalieri apparivano come figure ieratiche ed eterni guardiani della memoria e della dignità umana. Ricordano il dialogo che perdura tra il mondo di oggi e l’espressione mitologica.

In mezzo ai suoi soggetti preferiti – paesaggi, coppie, donne e gruppi –, mi è apparso il guerriero, non quello vincente nelle battaglie, ma il guerriero del nostro millennio di materiali di rifiuto, ferro, catrame e dal corpo ferito, un guerriero impotente e senza armi, il guerriero impossibilitato a cambiare i processi del tempo. Il guerriero di Bibbò, nella sua esperienza fallimentare, invita a riflettere alla esigenza di dotarsi di un nuovo difensore, o un nuovo salvatore, ma non creato dai nostri rifiuti. Effettivamente questo è il messaggio della mostra, “Il grido” di Bibbò, che risuona dopo di lui ed è ancora attuale.

Con la mostra di Nunzio Bibbò nella galleria “Contrast”, si vuole ricordare questo messaggio, e cioè che la principale missione dell’arte è occuparsi del senso della vita.

Axinia Džurova

Una studentessa nello studio di nunzio bibbò

L’ho incontrato attraverso la sua opera e la sua voce, quella dell’intervista conservata all’Istituto per i Beni Sonori e Audiovisivi dello Stato. Dalla voce mi è venuto incontro un uomo non perentorio, ma umile che vive l’arte come “qualcosa di sacro, di misterioso”. Sull’onda delle emozioni procurate compirò un tentativo: addentrarmi, attraverso il mio, nel suo mondo interiore.

Il sentimento preponderante davanti alla maggior parte della sua produzione è quello di una forte nostalgia: una nostalgia dovuta alla lontananza da luoghi, persone, ideali. Una passione per ciò che è stato, per ciò che sarebbe potuto essere.

Penso ai paesaggi ancestrali e necessariamente immagino luoghi metafisici, sacri sì ma anche privi di vita, di uomini che li abitino, dunque silenziosi e in qualche modo inquietanti. Sono oggetti che si rifanno ai luoghi di origine dell’artista ma che allo stesso tempo non si concretizzano mai in qualcosa di veramente familiare, reale, umano, visto o visibile dai miei occhi.

Non credo ci sia luogo somigliante a essi. C’è l’idealizzazione di mezzo, quell’idealizzazione che è tipica del ricordo. Un’idealizzazione che rende il passato ameno, culla nella quale rifugiarsi.

Lo stesso sentimento mi provocano le assemblee, nelle quali, è vero, gli uomini ci sono, e in abbondanza. Ma questi uomini sono sempre visti in lontananza, come gruppo compatto, nel quale ho quasi la certezza non si trovi mai l’artista. Lo stesso Nunzio, nell’intervista sopracitata, parlando delle assemblee, fa riferimento a una sensazione di isolamento, a un’esigenza di appartenere al gruppo, qualsiasi esso sia, dal quale l’artista sembra essere dunque escluso, non importa quale ne sia il motivo.

Lo stesso vale per i soggetti “mitici” nei quali, seppur ci sia un chiaro rimando alle forme classiche, a emergere è soprattutto il richiamo a un ideale di vita antico, fondato su una fede salda: nei valori morali, in Dio, inteso come entità ultraterrena alla quale affidarsi ciecamente. È la necessità, soprattutto emotiva, di richiamare alla memoria tempi migliori, sia per l’artista che per l’Uomo. Non è una mera riproposizione formale di un canone, di un certo tipo di figurazione: è l’esigenza di richiamarsi alla purezza. Purezza nella forma come nel pensiero, libero dal vacillamento spirituale.

L’unico tema privo di nostalgia è quello dell’amore.

L’amore è la donna, ma soprattutto è la coppia: è il corpo che si abbraccia, si bacia.

L’ amore è confortante, è faro nel buio, unico nodo saldo.

È redenzione, possibilità di riscatto.

Ragionando, invece, sul materiale prediletto di Nunzio, ho compreso come la sua arte non sia scultorea ma plastica: la creta implica non tanto la possibilità di rimaneggiare la forma fino al concludersi dell’atto creativo (elemento importante ma a mio avviso non fondamentale) quanto più l’opportunità di essere costantemente a contatto con la materia che si intende plasmare.

Ancora necessità di contatto, contatto con una materia “familiare” perché utilizzata nei luoghi natii, simbolo delle sue radici.

L’arte di Nunzio è arte pura, lontana dalla creatività, spesso mistificatoria, del suo tempo. Quando immagino Nunzio, immagino un uomo la cui storia, i cui sentimenti, si esprimono appieno nelle sue forme. È l’unico compito dell’artista contemporaneo: riportare la propria esistenza, rendere fruibile il proprio mondo interiore, sperando ardentemente che lo spettatore possa ritrovarsi in esso.

quel guerriero

Il guerriero è solitario; in questo senso si contrappone alle figure delle assemblee, alla comunità. Se nei gruppi, come ho detto in precedenza, fatico a credere sia incluso l’artista, nel guerriero invece vedo pienamente Nunzio. È in atto una sorta di Transfert. L’identificazione è strettamente connessa all’Antico, alla figura “mitica” del guerriero, virtuoso e valoroso in battaglia. Ma è necessario contestualizzare la scelta del soggetto nella contemporaneità e dunque, il guerriero non può che rappresentare Nunzio.

Un artista come Nunzio è un guerriero soprattutto per l’ostinata necessità di aggrapparsi al passato, alla Terra madre, ai sentimenti più puri dell’uomo, e alla figurazione, quasi arcaica oggi.

Il guerriero è ridotto all’osso, è magro, smunto: si tratta di un teschio a tutti gli effetti.

Il guerriero è mortifero. È una contraddizione: la principale dote di un combattente dovrebbe essere la sua forza fisica, totalmente assente in questo caso. Mi domando ora se questo guerriero sia dunque sconfitto, forse addirittura già morto, oppure se esso sia ancora capace di difendersi, nonostante le sue sembianze. Quale forza lo schiaccia? Difficile dirlo. Guardandolo, però, torna alla mente una celebre frase di Francis Bacon:

“Siamo potenziali carcasse”

È la condizione degli uomini. Ed è ciò che vedo in questa testa. È solo questione di tempo prima che ognuno di noi conosca la Morte. Ed è proprio il tempo ad essere rappresentato. Tempo non unitario, bensì dilatato. Tempo plasmatore: è un’onda che colpisce il volto del guerriero, partendo da destra, dove la sua azione si fa più evidente e aggredisce in modo meno efficace la parte sinistra del volto, nel quale ancora rintraccio forme umane, più carnose. Testa mortifera, vicina appunto al dismorfismo baconiano, a quell’esigenza di alterare la realtà, o meglio di svelarla, rendendo forse l’arte più dura ma decisamente più veritiera.

quella coppia

La coppia: i contorni sfumano, non definibili; forme che invitano all’interpretazione. Si ruota attorno e la scultura si offre in molteplici sbocchi e soluzioni interpretative: la prima impressione è che la coppia sia stante, ferma, i protagonisti uniti nello slancio verso l’altro; poi diviene dinamica, in movimento, come ad annunciare altri possibili futuri.

Fusione di corpi, la prima; teste che si uniscono in forma indefinita e unitaria, una visione intellettuale dell’amore: unione di menti prima che di corpi. Il rimando può essere a Gli amanti di Magritte. Ma, al contrario dell’opera surrealista dove la coppia vive nell’incomunicabilità e nell’alienazione, il “panno” immaginario che Nunzio pone sul volto degli amanti, esprime intimità, unione e isolamento rispetto al mondo esterno. Dunque elezione di anime: “Amore”.

Quindi evolve, con maggior senso del movimento, sicuro nel procedere. In quale direzione? Insieme. Un procedere schietto, ostinato. Le gambe sono tese nella tensione di un passo deciso, senza incertezze o timori, nella consapevolezza che qualsiasi sia il destino, sarà insieme.

Le due letture offerte dalla forma non si annullano, convivono armoniosamente, lasciando all’interlocutore la determinazione di un sentimento dolcemente contemplativo e allo stesso tempo saldo, militante.

una musica e un canto già scolpiti
luigi martini

Questo testo di Luigi Martini è stato composto per la mostra retrospettiva dell’opera di Nunzio Bibbò. Il titolo dato alla mostra è: “Una musica e un canto già scolpiti”, fu allestita nella sede di “4changing”, a Roma, nel 1917[1].

Già il titolo può suggerire quale punto di osservazione abbia scelto l’autore del testo e il curatore – la giovane storica dell’arte Giulia Gaibisso fu una preziosa collaboratrice –, quando immaginò la mostra.

Impaginata per temi, l’allestimento della mostra fu pensato come un dialogo tra la musica, la poesia e l’opera di Bibbò. I temi proposti dalle opere furono infatti accompagnati da una colonna sonora composta da brani di musica classica e da frammenti poetici funzionali a espandere suggestioni nel visitatore, perché potesse immergersi nella lettura dell’opera d’arte.

Martini escluse intenzionalmente di compiere una lettura da critico o storico d’arte, per muoversi su terreni prossimi alle suggestioni poetiche e al rapporto che, a suo modo di vedere, intercorre tra le arti.

È un atto di stima dichiarato, testimonianza dell’amore che l’autore nutre verso il lavoro artistico prodotto da Nunzio, tanto che, se non fosse riuscito a elaborare un’idea originale e innovativa nella progettazione e nell’allestimento della mostra, avrebbe rinunciato a curarla.

Il testo è un immaginario dialogo con Nunzio – amico scomparso tre anni prima –, e offre la possibilità di comprendere meglio il progetto.

[1] Si ringraziano la società 4changing e la casa editrice Cibele per avere concesso la possibilità di pubblicare il testo.

 

Per te e per il tuo lavoro ho deciso di venir meno a un impegno solenne, assunto con me stesso dieci anni orsono, non curare altre mostre.

La proposta è venuta da Silvia e Lucio – si, lo so non li conosci – desiderano inaugurare la sede delle loro attività culturali con una tua personale. Potevo dire di no dopo che, per ricordarti, Ennio mi ha convinto a parlare di te persino in chiesa, dove ho solo cercato a trattenere il pianto?

Ho cominciato a lavorare all’archivio delle tue opere – il disordine che hai lasciato è totale, e non sai quante te ne ho dette –, Stefano mi ha aiutato – lo so, neanche lui conosci –, fotografandole tutte, e Ekaterina le sta schedando e ordinando.

Nello stesso tempo abbiamo iniziato a lavorare alla mostra, ho scelto Giulia per curarla con me – non la conosci, ha 23 anni, ma sono certo che ne saresti contento – e ho chiesto a Andrea – che non conosci (mi sto accorgendo che non conosci proprio nessuno!) – di lavorare con noi sui video di montaggio, mentre Luciano ti “puliva” la voce – inutile aggiungere che neanche lui conosci – e Francesco ha offerto il suo apporto nella selezione delle poesie – non lo hai mai incontrato ma è campano, come te –.

Ed è solo l’inizio. Non sai quante persone – a te sconosciute – stanno lavorando alla mostra – Paolo, ad esempio, sta impazzendo per seguirmi nella lavorazione del catalogo –, tutti solo per passione.

La mostra è un work in progress – lo so, non mi hai mai sentito dire una cosa del genere, ma adesso capirai perché – nell’ultimo mese si sono aggiunti al lavoro (in progressione, come vedi) due artisti particolari – Oriana e Salvatore – che creeranno una situazione tecnologica, dentro lo spazio espositivo, che produrrà una scultura virtuale con le emozioni, la sensibilità e le attenzioni che i visitatori manifesteranno verso le tue opere.

Che ne dici? Avresti mai pensato che le tue sculture – ma anche le pitture e le incisioni – potessero indurre a creare – misurandosi – nuove tue opere? Che la creta e le nuove tecnologie si interfacciassero per ancor creare?

Naturalmente abbiamo – Giulia e io – letto e riletto i testi che sono stati scritti sulle tue plastiche forme, riascoltato la conversazione che facemmo nel 1993, guardato centinaia e centinaia di opere: il tutto per trovare il bandolo di quella matassa che, sempre, un artista autentico lascia a coloro che lo incontreranno con desiderio.

E, visto che mi hai indotto a venir meno a quell’impegno, ci siamo detti: Come possiamo offrire l’opera di Nunzio perché sia “vissuta”? Come far ascoltare e carpire quel “nucleo di originalità” che l’artista vero possiede? Qual è l’“anima tua” che concedi? Possiamo riuscire dove tanti altri, ben più dotati, non sono stati in grado? Infine, è possibile donarti una mostra che ti sorprenda?

Anche perché, non sei semplice, sei rude e arcaico, saluti gli amici sfiorandoli col cranio, piuttosto che con le labbra; un autentico contemporaneo. Non a caso la tua scultura si nutre della terra, dell’acqua e del fuoco, e diventa un reperto archeologico in vita, denso di vita.

Capisco che ci trovi un po’ ambiziosi, è vero, ma non si lavora con passione diversamente. Così abbiamo iniziato ad accarezzare con gli occhi le tue sculture, con le mani le superfici, e dentro di noi si alzavano suoni e armonie, si componevano musiche e sinfonie diverse, a seconda delle materie e dei temi. Incapaci di tradurle in spartiti da orchestrare, ci siamo detti certi che ognuno potrà ritrovarle nella propria sensibilità, sempre che si ponga nella condizione di ascoltarle, le tue sculture.

Abbiamo avuto la percezione che le tue dita corrano sulla tastiera della creta, la deformino con forza, quasi a sferzarla, per imprimere le note più forti, poi si sollevino per modularvi quelle più delicate donando le curve più dolci; quindi una sospensione…. poi la ripresa più possente su un’altra tastiera, liberando così le note più gravi, dell’organo che emerge dalle profondità della terra.

Benedetto Croce ha scritto che “L’artista non soffre troppo della difficoltà che gli oppone la materia riluttante, e anzi la sfida, e gode del trionfo”, ma credo che il vecchio idealista napoletano mai ti abbia annusato.

È la materia docile la tua eletta, l’erotismo della materia che è in te è del tutto tattile, fisico; desidera cedere sotto le tue dita, lasciarsi accarezzare e plasmare. Gli scultori il cui erotismo compositivo è primariamente intellettuale, cercano “la materia riluttante”, oppositiva, per lavorarla di testa e di forza; a lungo.

Sei tu, invece, della stirpe di Medardo[1] e di Arturo[2], particolarmente di quest’ultimo, il solo che ti stia alla pari nel comporre sonorità imprevedibili con l’epidermide delle sculture; una musica “che riga il silenzio”, con i suoi adagi e i suoi crescendo, fino alle rapsodie e alla moderna musica colta: “blues” o “rock” che sia.

E a chi possiede la qualità di accarezzarle, con gli occhi, e guardarle, con le dita, è concesso di passeggiare nell’arte, accompagnato da musiche elettive.

Se Edward[3] dipinge la luce, tu la carpisci, impalpabile materia, la imprigioni nelle tue forme, per ridonarla in uno spartito; A fronte dei tuoi paesaggi ancestrali, l’organo dell’Adagio di Albinoni risale dalle profondità per giacere sul pelo dell’acqua, su cui poggiano le tue architetture, tante e diverse plasmate dalla storia; sedimentazioni di lasciti intellettuali, estetici e funzionali all’uomo, sulle quali si inerpicano poi i violini per svettare maestosi verso di noi, oggi e domani.

Nasce a Napoli la forma “archetipica” dei paesaggi ancestrali, eterni, a modulare poesie, dove la tua sensibilità plastica trasfigura le forme raccontate dalla terra che si cuoce, e vibra, e emoziona, e canta.

Come afferma Ugo: “una passione, un’idea del mondo non deve essere, in un’immagine plastica, semplicemente “detta”, ma deve Essere, e vivere – col suo contrario – […] esistenziata.[4]                                                                                                                                                                                                                                                                             Per l’autore , esistenziata significa: l’immagine plastica creata, deriva da un profondo processo di appropriazione esistenziale da parte dell’artista.

Dalle tue dita si alza, si inerpica, si increspa e rimane incisa la creta, formando rupi percorse e segnate dagli esodi della storia, di popolazioni costrette a cercare altre terre; fin quando il forno dello scultore le blocca in cotta terra perché possano continuare a modulare l’aria con il lamento per la sofferenza del viaggio costretto, con il sospiro per il sollievo della sosta breve e con l’inno di gioia al nuovo approdo. In loro sono tutti i fuggiti nel corso dei tempi. E, nuovamente, l’organo dell’Adagio si alza dalle viscere del pianeta per seguire le forme che hai donato e liberarsi nella carezza dell’archetto sulle corde del violino.

I popoli e gli uomini che su una terra – nuovo approdo – si misurano nel costruire il loro tempo, mentre il tuo è sospeso

«Qui la terra mirando, il padre Enea 
vede un’ampia foresta, e dentro, un fiume 
rapido, vorticoso e quieto insieme, 
che per l’amena selva, e per la bionda 
sua molta arena si devolve al mare. 
Questo era il Tebro, il tanto desïato, 
il tanto cerco suo Tebro fatale: 
a le cui ripe, a le cui selve intorno, 
e di sopra volando, ivan le schiere 
di piú canori suoi palustri augelli».

e Enea, orienta guardandoli dritto negli occhi

«“Via, […] volgete il corso 
itene a riva”. E tutti in un momento 
rivolti e giunti, de l’opaco fiume 
preser la foce, e lietamente entraro. 
Porgimi, Èrato, aíta a dir quai regi, 
quai tempi, e quale stato avesse allora 
l’antico Lazio, quando prima i Teucri 
con questa armata a’ suoi liti approdaro».[5] 

Lungo il cammino gruppi, assemblee e ri-unioni si formano e disfano nell’andare; lascia l’impronta il viandante sul tratturo intriso d’acqua che, asciugandosi, restituisce il tuo passaggio, registra la tua presenza; almeno fin quando gli operai continueranno a urlare al poeta

«Ti vorremmo vedere accanto a un tornio!
Cosa sono i versi?
Roba da niente!
Certo che a lavorare mica ce la faresti».

e lui ad argomentare

«So bene
che non amate le frasi oziose, voi.
Per lavorare, fendete la quercia.
E noi?
Che forse non facciamo col legno lavori d’intarsio?
La quercia delle teste lavoriamo.
Certo
è cosa rispettabile pescare.
Tirare la rete,
e prendere storioni!
Ma non è meno rispettabile il lavoro del poeta:
prendere gente viva, non di pesci.
Una fatica enorme bruciare davanti alla fucina,
temprare i metalli sibilanti.
Ma chi può accusarci di essere oziosi?
I cervelli forgiamo con la lima della lingua.
Chi è superiore:
il poeta o il tecnico
che porta gli uomini al benessere?
Sono uguali.
I cuori sono motori.
E l’anima è un motore altrettanto complesso.
Siamo uguali.
Siamo tutti compagni operai.
Proletari di spirito e di corpo.
Soltanto insieme
abbelliremo l’universo,
e lo faremo rimbombare di marce.
Contro i diluvi di parole innalziamo una diga.
All’opera!
A un lavoro vivo e nuovo!
E gli oziosi oratori,
al mulino!
Fra i mugnai!
A girare le macine con l’acqua dei discorsi».[6]

quando alle comunità di uomini, già Matteo ha fatto dire a Cristo

«Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano.
In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo. In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro».[7]

e mentre le tue assemblee incarnano laiche sacralità, c’è chi, volgendosi all’uomo e alla donna dei tuoi gruppi, esorta

«Impara la cosa piú semplice! Per quelli
il cui tempo è venuto
non è mai troppo tardi!
Impara l’abbicí: non basta, è vero,
ma imparalo! Non avvilirti!
Comincia! Devi sapere tutto!
Tocca a te assumere il comando».
[8]

Nel frattempo approdi giovinetto al museo archeologico di Napoli, la mitologia ti viene incontro, non sapendo che dall’Alto Sannio ti porti – guerriero arcaico –, in attesa che l’organo di Hendel ti abbracci e ti accompagni in Sarabande alla scoperta e alla battaglia, alla tragedia e alla esaltazione, alla conquista, alla difesa e al rilancio della memoria contemporanea con forme perenni, sull’onda di Odisseo inebriato dal canto delle Sirene

«”Qui, presto, vieni, o glorioso Odisseo, grande vanto degli Achei,
ferma la nave, la nostra voce a sentire.
Nessuno mai si allontana di qui con la sua nave nera,
se prima non sente, suono di miele, dal labbro nostro la voce;
poi pieno di gioia riparte, e conoscendo più cose.
Noi tutto sappiamo, quanto nell’ampia terra di Troia
Argivi e Teucri partirono per volere dei numi;
tutto sappiamo quello che avviene sulla terra nutrice”.
Così dicevano alzando la voce bellissima, e allora il mio cuore
voleva sentire, e imponevo ai compagni di sciogliermi,
coi sopraccigli accennando; ma essi a corpo perduto remavano.
E subito alzandosi Perimède ed Eurìloco,
nuovi nodi legavano e ancora più mi stringevano.
Quando alla fine le sorpassarono, e ormai
né voce più di Sirene udivamo, né canto,
in fretta la cera si tolsero i miei fedeli compagni».[9]

mentre il guerriero si trasfigura in catrami alla porta della città contemporanea, fin dentro il “raccordo anulare” che la cinge, percorso da sfreccianti e inconsapevoli armate, accompagnate dalle percussioni; e improvviso si alza nuovamente l’organo e ode il canto di chi l’ha atteso

«Se non ti fossi curato di quello che mi accadeva,
Ed io non mi fossi curato di te
Avremmo percorso a zig-zag la nostra strada
attraverso la noia e il dolore
Sfiorandoci ogni tanto nella pioggia
Chiedendoci a quale dei bastardi dare la colpa
E stando attendo ai porci in volo
Lo sai che mi importa di quello che ti succede
e lo so che anche tu ti interessi di me
Così non mi sento solo
o non sento il peso della pietra
Adesso che ho trovato un posto sicuro
dove seppellire il mio osso».[10]

e da ogni dove la regina Didone, fra lontani cozzi d’arme e solitudine, è in preda a un sentimento, un’onda quasi sconosciuta, che non sembra governare, un fuoco che lentamente prende corpo nel suo cuore e che resterà suo “compagno” per molto tempo. Si siede, si alza, si veste delle tue sussultanti terre cotte, mentre ode distanti melodie

«“Anna, sorella, che incubi mi atterriscono sospesa.
Che ospite strano, questo, è giunto qui nel nostro
palazzo, presentandosi come d’aspetto, di così forte petto
e di armi. Credo davvero, e non è vana la mia opinione, che discenda dalla stirpe degli dei.
La paura rivela gli animi vili. Ah, da quali
fati egli è colpito. Che guerre compiute cantava.
[…]
Anna, ebbene lo confesserò, dopo il destino del povero marito
Sicheo e dopo che i penati furono sparsi di sangue fraterno
solo costui piegò i miei sensi e scosse il mio animo vacillante».[11]

David, con Brian, risponde in altra terra ed epoche di catrami e ferraglie

«Io, io sarò re
E tu, tu sarai la regina
Anche se niente li porterà via
Li possiamo battere, solo per un giorno
Possiamo essere Eroi, solo per un giorno
[…]
Io, io riesco a ricordare
In piedi accanto al Muro
E i fucili sparavano sopra le nostre teste
E ci baciammo,
come se niente potesse accadere
E la vergogna era dall’altra parte
Oh possiamo batterli, ancora e per sempre
Allora potremmo essere Eroi,
anche solo per un giorno».[12]

Intanto le armonie dell’universo si sono materializzate davanti a te, a Napoli, nella donna e nell’amore:

«Era de maggio e te cadeano nzino,
a schiocche a schiocche, li ccerase rosse
fresca era ll’ aria e tutto lu ciardino
addurava de rose a ciente passe
Era de maggio; io no, nun mme ne scordo,
na canzona cantávemo a doie voce…
cchiù tiempo passa e cchiù me n’allicordo,
fresca era ll’aria e la canzona doce».[13]

i tuoi pudori faticano a sciogliersi, mentre sollevi le dita, annulli la forza della mano per lasciare che la figura accennata si distacchi da te, con leggerezza; un illusionismo materico donato da piccole foglie di creta

«“Perché ti vergogni?
Quel pezzetto di torace che esce
dall’apertura della camicia, perché
lo copri? Perché non dovrebbero le tue gambe,
le tue buone forti cosce essere
ruvide, piene di peli? Io sono
contenta che siano così.
Tu sei timido, sciocco, tu sciocca
timida cosa. Gli uomini sono le più timide
delle creature, non usciranno mai dai loro
rifugi. Come un serpente che scivola nel suo
letto di foglie morte, tu ti affretti dentro
i tuoi vestiti. E a me piaci così!
Diritto e netto e tutto d’un pezzo è il corpo
dell’uomo, uno strumento così, una picca,
come una spada, e come un remo, una gioia
per me!”. Così lei appoggiava le sue mani
e le premeva sotto i miei fianchi
così io cominciavo a meravigliarmi
di me stesso, e chiedermi che cosa ero».[14]

e le tue vibranti cotte terre compongono nuove musiche: “Voi sapete che v’amo e v’adoro…..”[15], femminee superfici molli e fiere, a modulare il canto del Romance Anonimo, che Andrés[16] libera dall’ombellico della sua chitarra classica facendole ondeggiare sulle corde. Le note si avvolgono, si ergono, poi si abbandonano per rianimarsi nuovamente. Fino a quando il maestoso spagnolo esplode:

«Avevi la passione che dà il cielo di Spagna.
La passione del pugnale, dell’occhiaia e del pianto.
O principessa divina dal crepuscolo rosso
con la rocca di ferro e il filo d’acciaio!
Non hai mai avuto il nido né il madrigale dolente
né il liuto che singhiozza lontano.
Il tuo trovatore fu un giovane dalle squame d’argento
e i suoi accenti d’amore l’eco della tromba.
E tuttavia eri fatta per l’amore,
fatta per il sospiro, l’abbandono e le carezze,
per piangere triste sul cuore amato
sfogliando una rosa profumata con le labbra».[17]

e dalla Francia risponde un altro canto alla bellezza femminile

«Vieni tu dal cielo profondo o sorgi dall’abisso, Beltà? Il tuo sguardo, infernale e divino, versa, mischiandoli, beneficio e delitto: per questo ti si può comparare al vino.
Riunisci nel tuo occhio il tramonto e l’aurora, diffondi profumi come una sera di tempesta; i tuoi baci sono un filtro, la tua bocca un’anfora, che rendono audace il fanciullo, l’eroe vile.
Sorgi dal nero abisso o discendi dagli astri? Il Destino incantato segue le tue gonne come un cane: tu semini a casaccio la gioia e i disastri, hai imperio su tutto, non rispondi di nulla.
Cammini sopra i morti, Beltà, e ti ridi di essi, fra i tuoi gioielli l’Orrore non è il meno affascinante e il Delitto, che sta fra i tuoi gingilli più cari, sul tuo ventre orgoglioso danza amorosamente.
Venga tu dal cielo o dall’inferno, che importa, o Beltà, mostro enorme, pauroso, ingenuo; se il tuo occhio, e sorriso, se il tuo piede, aprono per me la porta d’un Infinito adorato che non ho conosciuto?
Da Satana o da Dio, che importa? Angelo o Sirena, che importa se tu – fata dagli occhi vellutati, profumo, luce, mia unica regina – fai l’universo meno orribile e questi istanti meno gravi?».[18]

tu continui a modulare rapsodie di forme morbide e erte, avvolgenti, quando il giovine russo canta e rilancia in altra parte del mondo

«Quel giorno tutta, dai pettini ai piedi,
come un attore tragico in provincia un dramma di Shakespeare,
ti portavo con me e ti sapevo a memoria,
e, girellando per la città, ti ripassavo.
Quando ti caddi innanzi a te, abbracciando
questa nebbia, questo ghiaccio, questo spazio
(come sei bella!) – questo vortice turbine d’afa…».[19]

fin quando la poetessa greca di Ereso viene a soffiare nelle tue corde di amorosi sensi, che La gazza ladra accompagna, modula e sussulta e vibra nell’ascoltare e annusare i desideri, nell’età della passione e dell’amore

«Tramontata è la luna
e le Pleiadi a mezzo della notte;
anche giovinezza già dilegua,
e ora nel mio letto resto sola.
Scuote l’anima mia Eros,
come vento sul monte
che irrompe entro le querce;
e scioglie le membra e le agita,
dolce amara indomabile belva.
Ma a me non ape, non miele;
e soffro e desidero».[20]

fino al loro esplodere nella forte presa da tergo che l’arcaico e vigoroso e colto amante garantisce, e che la terra cotta dona nella forma più doverosa. Gioisce e urla rauco d’amore l’amante/guerriero, perché non Scuote solo l’anima mia Eros. Le musiche viaggiano con la materia scolpita, plasmata, e accompagnano le onde dei desideri e la forza estetica della scultura tua, fino a rianimarsi dolcemente nel crescendo degli amanti

«corpo dolce e benevolo,
nella sua calma suprema, tutto
ha così tanto femminile,
così naturalmente voluttuoso,
dai piedi a lungo baciati
sino a quegli occhi chiari, puri d’estasi,
ma quanto e come ben saziati!
Dalle gambe e le cosce
giovinette sotto la giovane pelle,
attraverso l’odor di formaggio
e di gamberi freschi, bello,
grazioso, discreto, dolce, cosino
appena ombreggiato di delicato oro,
che t’apri in un’apoteosi
al mio desiderio rauco e muto
[…]
Passando per la lenta schiena
piacevolmente carnosa, sino
al culo sontuoso, divinamente bianco,
rotondità degne del tuo scalpello,
molle Canova! sino alle cosce
che ancora bisogna salutate
sino ai polpacci, sode delizie,
sino ai talloni di raso e d’oro!
Furono nodi incoercibili?
No, ma ebbero il loro fascino.
Furono i nostri fuochi terribili?
No, ma diedero il loro calore.
[…]
E ti conservo tra le mie donne
rimpianta non senza qualche speranza
di quando forse ci amammo
e di senza dubbio riaverci».[21]

È giunta l’ora di spegnere i cellulari, di entrare nella cavea del teatro delle arti, ascoltare in silenzio le forme, guardare i suoni, fino a sfiorare nell’ultima stanza la coperta musicante che scende dal “culo sontuoso” ad accogliere il sospiro che porta con sé.
È la cotta terra di Nunzio Bibbò.

[1] Medardo Rosso.

[2] Arturo Martini.

[3] Edward Hopper.

[4] Da una conversazione con Ugo Attardi, in: Arte in Lotta, (a cura di Luigi Martini), Ediesse, 1996, p. 16.

[5] Virgilio, da Eneide, Libro VII.

[6] Vladimir Majakovskij, da Il poeta operaio, tratta da «Maiakovski, Marcia di sinistra», edizione Editori Riuniti per «Vie Nuove», fuori commercio, 1958.

[7] Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 18, 15-20).

[8] Bertolt Brecht, da Elogio dell’imparare.

[9] Omero, da Odissea, libro XII.

[10] Roger Waters, da Pigs on the Wing.

[11] Virgilio, da Didone innamorata, libro IV.

[12] David Bowie/Brian Eno, da Heroes.

[13] Salvatore Di Giacomo, da Era de maggio.

[14] David Herbert Lawrence, da “Lei mi diceva proprio così”.

[15] Da un Madrigale.

[16] Andrés Segovia.

[17] Federico Garcìa Lorca, Elegia a Giovanna la pazza.

[18] Charles Baudelaire, da Inno alla bellezza.

[19] Boris Pasternak, da Marburgo, versione di Angelo Maria Ribellino.

[20] Saffo, da Tramontata è la luna, traduzione di Salvatore Quasimodo.

[21] Paul Verlaine, da A colei che si dice sia fredda.

Non ho finora scritto nulla riguardo alla tua ricerca perché affrontare la scultura mi è difficile.

Eppure ho iniziato proprio scrivendo su questo. Ho sempre sentito l’energia della materia, ho sempre percepito la sua forza e il suo rendersi forma nello spazio. Quell’esistere solido, possente nel tempo e nella dimensione fisica, oggetto creato, reale, tangibile. Quello che mi ha sempre attratto della scultura è proprio il suo essere autonoma anche dallo stesso autore, una volta compiuta.
La scultura è un oggetto “vivo”, perché occupa uno spazio e un tempo reale, lo stesso spazio e tempo in cui noi agiamo. Essa esiste di per sé. In tal senso, poco importa alla fine chi l’ha fatta se non per una questione di storia, di cultura, di traccia lasciata . La materia ha sempre esercitato un grande fascino su di me. A stento mi trattengo dal toccare una superficie quando è materica, quando ha uno spessore e con la scultura il gesto diviene irrefrenabile. È un atto di trasgressione che rompe l’aura dell’opera d’arte e crea un incontro intimo con quell’oggetto, un atto di possesso di qualcosa che non può sottrarsi. Ma quello stesso atto che stabilisce un rapporto di sensi con la materia, mi riduce al silenzio, quasi che le parole non riuscissero a rende- re l’opera oltre la sua stessa realtà. Rimane il mistero. Qualcosa che è, ma che non è poi così ovvia.

A distanza di due anni, credo oggi di poter dire che vedere i tuoi nuovi lavori mi ha colpito in modo particolare. Non che prima non trovassi interessanti le tue sculture.
Ne ho sempre apprezzato il candore interno per quello sforzo così ostinato, ma per questo autentico, di non volere perdere il senso dell’umano, la sacralità delle cose, i valori più alt i che riscattano l’uomo dalla brutalità dell’esistenza.
Ma era un contenuto così ben esplicitato, impossibile da equivocare, che ti inchiodava entro quella lettura, non riuscendo a cogliere altre tensioni, che pure si avvertivano, ma non esplodevano.
Mi sembrava sempre che le tue opere annunciassero qualcos’altro, che mancasse quel gesto tanto immediato da consentire ai tuoi contenuti di coesistere con le forme dentro una materia plastica che restituisse il tuo processo creativo come atto del pensiero, e al contempo partecipazione psicofisica verso la realtà. E allora la figura non può che essere suggerita, come già in parte avveniva nelle tue opere precedenti, ma oggi in particolare sembra aver perso il suo contesto narrativo.
Di fronte ai tuoi ultimi lavori mi sono improvvisamente resa conto dello spostamento, dello scarto linguistico che lascia emergere una tu a diversa collocazione entro la ricerca artistica che stai portando avanti da tempo volta ad esprimere il tuo rapporto con la contemporaneità attraverso un mezzo espressivo così antico, ma così profondamente radicato all’uomo.
Mi appare ora evidente l’itinerare della forma verso un’ arcaicità non più interpretabile in chiave mitologica, libera da una cultura a volte troppo dichiarata.
Quelle sculture tagliate, più che modellate, quella materia addirittura silenziosa, senza strappi, senza lacerazioni forti, anzi composta nel suo essere espressione di qualcosa che è oltre il dato naturale, oltre l’apparenza stessa delle cose, affermano che la realtà non può più essere rappresentata secondo le consuete modalità.

C’è un rigore e al contempo una semplicità sentita, naturale, una forza primordiale e al contempo una modernità, che connotano le tue opere e le rendono espressione della contemporaneità.
Devo dire che già i catrami segnano un passaggio decisivo in tal senso . Quella materia così violenta, quelle figura per molti aspetti inquietanti, non nascono da un modellato , ma dal l’avvolgimento stesso dei fogli di catrame.
Un’operazione che presenta una doppia valenza: da un lato rivela il disperato tentativo di dare voce al le tue inquietudini interne, che avverti sottilmente essere quelle dell’epoca, cui contrapponi una visione mitica intesa non come una sorta di fuga dalla realtà, ma come possibilità di restituire di nuovo un senso all’uomo ed al suo agire; dall’altro esprime il tuo bisogno di leggerezza, di svuotare la materia senza perdere la figura, che viene resa visibile, quasi trattenuta, dalle superfici avvolgenti del catrame.

Quella materia così sgradevole diviene fortemente funzionale alla raffigurazione della condizione esistenziale dell’uomo contemporaneo. Quell’impossibilità a modellare denuncia la perdita della relazione con la vita e al contempo la consapevolezza che forse oggi il vuoto è più significativo e rappresentativo dell’apparenza stessa della vita. Anche se sono venuti ormai meno i presupposti storici di una cultura fondata su quei valori che tu ricerchi, la tua natura di artista ti porta a non rinunciare al tuo mondo interiore, a conservare la tua purezza con una sorda ostinazione, che però ti è vitale. E lo è a tal punto che la tua arte non può fare a meno della figura, seppure semplificata, ridotta a semplici linee, perché altrimenti verrebbero meno le ragioni fondanti della tua ricerca. Tu vuoi conservare gelosamente le tue origini, ma senza rinunciare ad essere un uomo del tuo tempo, ad essere in quella contemporaneità che trova la sua massima sintesi nelle tue ultime sculture in terracotta, dove la figura si avverte sensibilmente nella materia, ma senza essere rappresentata in modo naturalistico. Quasi una sorta di monolite che silenziosamente racchiude la storia dell’uomo.

Ida Mitrano

Designed using Unos. Powered by WordPress.